L'Italia volta pagina sul diritto all'affettività e alla sessualità dei detenuti in carcere

di A. Iacono

Attualità & PoliticaDiritto e Giustizia

Il tema è stato a lungo ignorato dalla politica italiana, ma la Corte Costituzionale è recentemente intervenuta dando vita ad un “neo-diritto”, sempre nella totale inerzia del nostro parlamento. È giusto, e forse anche utile per tutti, riconoscere ai detenuti l’esercizio di tale diritto all’interno delle carceri? E il nostro sistema penitenziario è pronto?

 

Foto: FreePik

La “lunga marcia dei diritti” (1)

Si dice che Voltaire, uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo settecentesco, abbia pronunciato la frase “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. 

Nonostante non vi siano certezze sull’attendibilità storica, è indubbio il valore di tali parole: negli istituti penitenziari vi sono soggetti “invisibili”, totalmente estraniati dalla società civile, spesso disprezzati e considerati "subumani", persone a cui è stata sottratta la libertà personale, uno dei principi supremi delle nostre liberal-democrazie.

È pacifico che i detenuti siano ristretti legittimamente a causa della violazione di norme poste a tutela di cd. beni giuridici (2), da cui consegue, in forza di un principio di mera giustizia retributiva o di esigenze preventive, la sanzione penale. In dottrina vi sono comunque voci che mettono in dubbio tale sistema: l’idea di fondo prospettata da alcuni autori è che il carcere, almeno nel modo in cui è maturato nella quasi totalità delle esperienze (tralasciando dunque le vicende “illuminate” del nord Europa), sia in nuce un sistema violento e controproducente (3).

Il panorama legislativo italiano, dopo essersi a lungo caratterizzato per una visione del carcere come istituzione totale (4), nel cui ambito il rapporto tra il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria era fortemente unilaterale, con assoluto assoggettamento del primo, ha subito una significativa innovazione negli anni ’70, quando il legislatore si è mosso, per attuare il dettato costituzionale, con la legge 354/1975, prevedendo la conformità dell’esecuzione della pena ai principi di umanità e dignità e sottolineandone la principale ratio, ossia il reinserimento sociale del soggetto, oltre che il riconoscimento di diritti fondamentali.

Ha iniziato dunque ad affermarsi l’idea, avallata poi dalla giurisprudenza costituzionale, per cui anche ai detenuti debba essere riconosciuto un cd. nucleo duro di diritti, compatibili, ovviamente, con lo status detentionis; d’altra parte la “illuminata” l. 354/1975 soffriva, anche a causa delle tragiche vicende nazionali dell’epoca in tema di attività di organizzazioni terroristiche e mafiose, e per certi versi tuttora soffre, di un'attuazione solo parziale.

Una criticità durata a lungo è stata la mancata previsione di strumenti con cui il singolo detenuto poteva reagire di fronte a violazioni dei propri diritti fondamentali da parte dell’Amministrazione penitenziaria, insomma, certi diritti erano anche previsti ex lege, ma la loro “giustiziabilità” era seriamente ridotta. Da chi è stata risolta tale questione? Dalla politica? No, dal potere giudiziario: la nostra Suprema Corte ha esteso alle ipotesi di violazione dei diritti fondamentali il cd. reclamo generico di cui all’art. 14 ter della legge 354/1975, con cui il detenuto può contestare, rivolgendosi al Magistrato di sorveglianza (5) e addirittura alla Corte di Cassazione (6), l’applicazione di sanzioni disciplinari, come l’“isolamento”, stabilite nei suoi confronti dalla direzione del penitenziario. 

Un’ulteriore tappa cruciale è stata la celebre condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) nel 2013, a causa non solo del grave sovraffollamento carcerario (7), ma anche dell’assenza di rimedi efficienti in capo ai detenuti: il ricorso ex art. 14 ter era ritenuto dalla Corte EDU insufficiente, poichè, nonostante la sua natura giurisdizionale, consentiva un’interlocuzione tra giudice e detenuto ricorrente meramente “cartolare”, basata dunque solo su documenti cartacei. Così il nostro parlamento ha introdotto un ulteriore rimedio, il reclamo ex art. 35 bis, che ritroveremo come protagonista alla fine.

Tasso di affollamento effettivo, al netto dei posti temporaneamente non disponibili. Fonte: pagella politica

Tra i diversi diritti fondamentali ve n'è uno, quello alla affettività-sessualità, che è stato a lungo negato dall’ordinamento giuridico italiano.

“Carcere e affettività” appare come un binomio apparentemente inconciliabile, soprattutto se si muove dal presupposto per cui il carcere debba essere un luogo teso all’annichilimento dell’individuo come contrappasso per il male prodotto dal criminale.

L’esercizio della affettività-sessualità era consentito ai detenuti solo extramoenia in occasione dei cd. permessi premio, dunque durante l’uscita dal penitenziario: condizione del tutto insoddisfacente posto che di tale istituto gode una minima parte dei detenuti, essendo questo subordinato a diversi presupposti (8), e per la logica sottesa di natura “premiale”, per la quale l’affettività-sessualità deve essere meritata dai reclusi. Altra possibilità era data dai colloqui all’interno dell’istituto penitenziario, alternativa altrettanto inadeguata, poiché gli stessi avvengono in luoghi affollati e caotici, in tempi ridotti e sotto il controllo a vista del personale, cosicché si tramutano spesso in luoghi di stress per coloro che giungono a far visita al detenuto, minando, anziché rafforzando, le relazioni personali.

Appare assolutamente opportuno offrire ai detenuti la possibilità di godere di un tale diritto, di una frazione di affettività, una frazione comunque irrisoria rispetto a quella cui sono abituate le persone libere nelle loro quotidianità, e ciò, non solo per l’importanza “idealista” di garantire l’umanità della pena, ma anche in forza di considerazioni di “opportunità”, che dovrebbero dunque trovare un consenso unanime, non inerendo a valutazioni etiche: rendere il carcere più vivibile beneficia infatti l’intera collettività. Se la rieducazione, come pilastro della pena impresso nella nostra Costituzione, consiste nel reinserimento nella società, in cui il detenuto deve trovare il proprio ruolo, è ovvio che ciò debba avvenire in primo luogo relativamente alla famiglia e agli affetti più stretti. Ma la relazione con costoro subirebbe inevitabili pregiudizi ove il detenuto non fosse in grado di prendersene cura, con il rischio di accentuare il senso di “estraniamento” dalla società che molti reclusi patiscono e disintegrare tutti quei legami la cui presenza può costituire un tassello essenziale nel processo di recupero del criminale, garantendo a costui un motivo di responsabilizzazione e speranza.

Si tratta di una riflessione non più rinviabile, a fronte del fallimento dell’attuale assetto, dimostrato dai dati più recenti in tema di recidiva comunicati dal CNEL: il 60% dei detenuti sono già stati almeno una volta in carcere, che rischia di essere una “scuola di crimine”.

Tale percentuale crolla nelle ipotesi in cui al posto del carcere sia comminata una sanzione sostitutiva e quando ai detenuti vengano garantite le cd. attività trattamentali, in primo luogo formazione e lavoro, che diano loro una motivazione (in ogni caso meritano ascolto le critiche secondo cui tali dati sarebbero parzialmente fuorvianti, posto che costoro potrebbero essere soggetti che in nuce siano più ben disposti alla rieducazione, che, ovviamente, rimane un diritto del detenuto e non gli può essere imposta dall’alto a mo’ di Arancia Meccanica).

 

L’irragionevolezza della soluzione italiana si evinceva anche allargando lo sguardo all’esperienza di altri Paesi (9).

Le soluzioni più avanguardistiche caratterizzano il nord Europa, ad esempio Olanda, Norvegia e Danimarca, dove sono messi a disposizione di ogni ristretto strutture che ricreino quanto più possibile un ambiente di tipo domestico, in cui vivere la normalità di una relazione affettiva.

In Francia vi sono all’interno degli istituti di pena luoghi ad hoc per la coltivazione dell’affettività-sessualità e sottratti perciò alla sorveglianza continua e diretta da parte degli agenti di polizia penitenziaria: parlatori familiari (parloirs familiaux) in cui il detenuto può ricevere familiari per un massimo di sei ore e unità di vita familiari (unités de vie familiale), dove la durata dell’incontro va da un minimo di sei ad un massimo di settantadue ore.

In Spagna il legislatore ha previsto la possibilità per i detenuti che non fruiscono di permessi di uscita all’esterno di richiedere una volta al mese visite intime dalla durata compresa tra una e tre ore con i propri familiari; nello specifico in Catalogna sono richiedibili due visite intime da 90 minuti al mese, una con la famiglia, l’altra con il partner e queste costituiscono elemento necessario del trattamento penitenziario.

In Italia invece era vietata qualsiasi forma di affettività intramoenia a causa della norma per cui i colloqui avvengono sotto il controllo a vista degli agenti di polizia penitenziaria.

 

Decisivo è stato l’intervento della nostra Corte Costituzionale che nel 2024 ha giudicato la nostra disciplina illegittima in base a tre diversi parametri:

  • Irragionevolezza (art. 3 Costituzione)
  • Ostacolo della finalità rieducativa della pena (art. 27 Costituzione)
  • Contrarietà alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che tutela il rispetto della vita familiare e personale di ogni individuo (art. 117 Costituzione)

 

La Consulta non si è limitata, come tendenzialmente dovrebbe operare un “giudice delle leggi”, ad annullare una norma, ma ha adottato una sentenza cd. manipolativa, dichiarando incostituzionale la norma nella parte in cui non prevedeva la possibilità di evitare il controllo a vista durante i colloqui, creando di fatto una nuova norma.

La Corte, si badi, non ha sostenuto la necessità che tutti i colloqui siano “intimi”, dunque sottratti allo sguardo degli agenti, bensì ha censurato la disciplina per la sua assolutezza e inderogabilità. Non a caso nella sentenza i giudici riconoscono come la possibilità di godere di forme di affettività-sessualità all’interno del carcere possa sì essere negata, ma solo a fronte di un bilanciamento che tenga conto della situazione soggettiva del detenuto (ad es. pericolosità sociale, regime speciale del 41 bis, il cd. carcere duro applicato a molti mafiosi,...). 

 

Nonostante la Corte abbia dato vita ad un “neo-diritto”, che deve dunque essere pienamente garantito, continua a mancare una disciplina normativa organica (10). Qual è dunque lo status quo?

Il giudice delle leggi, temendo l’inerzia legislativa, si è rivolto direttamente non solo alla Magistratura di sorveglianza, ma anche all’Amministrazione penitenziaria, in tutte le sue articolazioni, centrale e periferiche, sottolineando il contributo che la stessa avrebbe potuto dare per garantire l’affettività-sessualità e offrendo a tal proposito alcune linee guida.

Negli ultimi mesi abbiamo potuto toccare con mano gli esiti delle prime istanze da parte di detenuti, che, se da una parte hanno ricevuto l’ostilità delle direzioni degli istituti penitenziari, dall’altra sono state accolte dai Magistrati di sorveglianza. È  comunque opportuno dare contesto alla ritrosia dei direttori penitenziari, dato che sussistono enormi difficoltà non solo economiche, relative al bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) (11), ma anche logistiche, relative alla condizione ed età delle carceri: vi è un’evidente sproporzione tra le voci di spesa e, in relazione agli istituti visitati da Antigone nel 2021, il 26% risale a prima del 1900 e il 13% alla prima metà del XX secolo (12).

Spese del DAP previste nel 2017 in milioni di euro. Fonte: Antigone

Il primo caso ha riguardato un soggetto recluso nel carcere di Terni la cui richiesta era stata rigettata dalla direzione dell’istituto, che si era giustificata adducendo motivazioni in ordine alla necessità di individuare locali idonei per lo svolgimento dei colloqui intimi e di attendere direttive dagli uffici superiori, in un tempo non meglio stabilito, non essendoci alcuna calendarizzazione. Il detenuto ha presentato reclamo ex art. 35 bis, di cui si accennava all’inizio, che è stato accolto dal Magistrato di sorveglianza, il quale ha obbligato la direzione ad assicurare con la massima urgenza il godimento del diritto, biasimando l’istituto penitenziario per non aver avviato un’attività autonoma, anche in termini di riqualificazione di alcune strutture.

Un importante sviluppo, ancora più recente, ha visto finalmente interessarsi al tema il DAP, che ha emanato una direttiva rivolta a tutte le articolazioni territoriali competenti, comprese le direzioni degli istituti penitenziari. Stimato il numero di detenuti potenzialmente beneficiari, circa 17.000, il documento, tra le varie linee guida, prevede:

  • I colloqui intimi potranno durare massimo due ore e saranno computati nei 6 colloqui previsti mensilmente per ogni detenuto
  • Dei criteri di priorità con cui vagliare le richieste: la precedenza dovrà essere accordata a chi non beneficia di permessi premio e a chi deve espiare o ha già espiato pene più lunghe
  • Il compito per i direttori penitenziari di accertare che il soggetto terzo sia effettivamente coniuge, parte dell’unione civile o convivente stabile del detenuto
  • Il compito per i provveditorati (13) di individuare le strutture disponibili, che dovranno essere poi dotate di una camera arredata con un letto e servizi igienici

L’auspicio non può che essere quello per cui i diversi livelli della pubblica amministrazione si mettano in moto per evitare che il diritto all’affettività-sessualità dei detenuti rimanga in un limbo, un mero “dirittosulla carta”, e che il legislatore soprattutto si occupi del tema in modo organico, magari, perchè no, anche destinando una quota maggiore del bilancio del DAP al trattamento e alla risocializzazione dei detenuti, così come al finanziamento, non solo del corpo di polizia penitenziaria, ma anche di soggetti, come educatori e psicologi, il cui ruolo nelle carceri è altrettanto prezioso, non solo per i detenuti, ma anche per la sicurezza di tutti noi.

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