Diario elettorale. Parte I

Fra poco più di due mesi si vota e, una volta ancora, queste elezioni potrebbero cambiare la direzione del paese per molti anni a venire.

Il condizionale è d’obbligo visto che l’atmosfera da “ultima spiaggia” ha caratterizzato le elezioni italiane sin dal 2013 e, mentre è pur vero che in questi dieci anni son cambiate tante cose e ne sono successe anche svariate di gravi, siamo ancora qui: più o meno in Europa e con il debito pubblico ancora solubile.

Ciò che rende le elezioni in arrivo molto particolari è, anzitutto, il fatto che, dopo 76 anni circa di repubblica anti-fascista gli eredi storici (politici, morali ed intellettuali) del regime fascista potrebbero non solo andare al governo ma anche andarci come partito di maggioranza relativa che esprime il Presidente del Consiglio. So già che definire il partito Fratelli d’Italia semplicemente “fascista” attirerà molte rimostranze, ma così è perché così dicono i testi, i fatti e la logica ma di questo ci occuperemo in una futura occasione. Come ci occuperemo in una futura occasione di molte altre tematiche rilevanti: la situazione economica prospettica, il ruolo dell’Italia nella guerra russo-ucraina, il conflitto fra gruppi sociali sottostante lo scontro politico-ideologico, il ruolo dei due tronconi dell’ex Movimento 5S, il posizionamento del PD ed il suo ruolo di principale ostacolo alla costruzione di un movimento per la rinascita nazionale ... i temi sono tanti, ma da qui al 25 settembre c’è tutto il tempo di cui abbiamo bisogno.

Siccome questo è un diario personale non seguirò un percorso logico predeterminato ma mi farò guidare dagli eventi e dai temi che l’attualità mette al centro del dibattito. In questi giorni il tema centrale, a me sembra, è quello dell’eredità politica di Mario Draghi e di questo mi occuperò oggi. In termini molto semplici la questione è la seguente: nella geografia politica italiana un partito che si ispiri a quel che Draghi aveva affermato di voler fare dovrebbe collocarsi al centro dello spettro politico. Questo partito non esiste, ma la corsa alla sua costruzione è ufficialmente aperta.

L’abbandono di Draghi lascia orfana una galassia di piccole organizzazioni politiche che proclamano di volerne raccogliere la bandiera: ottimo proposito che, personalmente, io auspico si realizzi. In questa e nelle prossime riflessioni vorrei riflettere sul “che fare?”, ovvero su quali scelte potrebbero massimizzare le probabilità di successo di una tale formazione politico. In termini pratici il “che fare?” si traduce in: chi dovrebbe esserci in questo partito, come dovrebbe posizionarsi e con che programma dovrebbe presentarsi?

Il programma non può essere altro che quello di rinnovamento nazionale tracciato da Draghi nel suo discorso d’investitura al Senato il 17 febbraio, 2021, con un’ovvia aggiunta. L’Italia è parte integrante della NATO ed il regime russo è nostro nemico, quindi l’Italia contribuirà alla difesa dell’Ucraina senza indugi ed al meglio delle sue risorse finanziarie e militari sino a quando l’aggressore russo non abbandonerà i suoi propositi imperiali.

Sul chi deve esserci in questo mitologico partito vorrei tornare, se possibile, in una prossima occasione ma la risposta telegrafica è semplice: chiunque ci stia a sottoscrivere esplicitamente il programma appena menzionato attraverso un confronto aperto e pubblico che avrebbe dovuto iniziare mesi fa. Senza snobismi, esclusioni a priori, ripicche, personalismi ed esami del sangue.

Con che posizionamento? A questa domanda rispondo dicendo: senza compiere l’eterno e fatale errore dell’area di centro, ovvero quello di mediare a-priori rispetto alle posizioni ideologiche di uno, o entrambi, dei suoi avversari. Esiste una solida minoranza di italiani che disperatamente vuole vengano messe con forza sul tavolo le riforme che Mario Draghi aveva delineato all’inizio del suo governo. Questa minoranza di elettori è andata crescendo, identificandosi ed anche omogeneizzandosi politicamente durante l’ultimo anno ed oggi non ha alcun partito che la rappresenti in modo convincente. Riflettiamo per un momento su alcuni fatti abbastanza incontestabili.

La stragrande maggioranza degli italiani vuole rimanere nell’Alleanza Atlantica. Circa il 30% è anche convinto che occorra dare supporto economico, politico e militare all’Ucraina sino a quando Putin non rinunci all’invasione e ritiri le truppe accettando il terreno negoziale. Questo dicono i sondaggi, suggerendo pure che circa 1/4 degli italiani sarebbe favorevole a riconsiderare la questione del nucleare. Ad oggi non esiste un singolo partito che su queste due questioni fondamentali abbia preso una posizione precisa e non ambigua.

Un altro terzo dei cittadini italiani (forse gli stessi di prima?) ritiene che la spesa pensionistica sia troppo elevata. Batti e ribatti circa un terzo degli italiani si è reso conto che una spesa pensionistica sul PIL pari al 17% non solo è economicamente insostenibile e distruttiva di posti di lavoro ma, proprio per questo, è anche ingiusta. Anche su questo tema non esiste una singola forza politica che affermi questa banale verità mentre entrambi i grandi blocchi cercano di negarla, mentendo agli italiani.

La stragrande maggioranza degli italiani, stakeholder soprattutto, si dichiara insoddisfatto del sistema scolastico italiano, di quello secondario e terziario in particolare. Tale insoddisfazione ha motivazioni diverse, a volte opposte, ma la sua ampiezza segnala che, da 60 anni, un grande bubbone siede al centro dello stato e della vita quotidiana degli italiani. Trovo ragionevole argomentare che tra ¼ ed ⅕ dell’elettorato sia consapevole che scuola e università italiane non formano i nostri giovani per lavorare e prosperare nel mondo moderno. Lo vogliono veder cambiato per davvero e da cima a fondo. Se qualcuno pensa che “La Buona Scuola” di Matteo Renzi possa essere una risposta a questa domanda, meglio che dia un’occhiata ai risultati. Di nuovo, il problema che pure è chiarissimo in strati ampi della società civile sembra del tutto assente in quella politica.

A nessun italiano piace il sistema fiscale esistente: tutti lo ritengono disegnato esattamente per far loro danno. All’interno di questo gigantesco marasma quanti sono quelli che ritengono necessaria una drastica semplificazione (sulla falsariga di quella che la pseudo-riforma appena approvata avrebbe dovuto realizzare ma molto più incisiva e determinata)? Forse non più del 15-20% dell’elettorato ma, se sondaggi ed altre mille segnali non mentono, questo stesso 15-20% è anche consapevole che esiste una sola strada percorribile per ridurre il carico fiscale dopo averlo semplificato: porre sotto controllo la spesa pubblica che, già insostenibile nel 2019, ha preso il volo durante gli ultimi due anni.

Questo vale, in particolare, per il tema “cuneo fiscale” che appare e scompare nel dibattito pubblico senza esser mai risolto. Una soluzione non c’è a meno che non si accetti di ridurre la spesa pensionistica e di avviare quelle riforme che aumentando concorrenza, libertà di entrata e cambio nella composizione dimensionale del settore servizi, sono la vera precondizione per ogni incremento sostanziale di produttività. Se due romani su tre, secondo i sondaggi, son favorevoli alla Bolkenstein non credo sia folle presumere che un italiano su 5 abbia voglia di queste riforme per la semplice ragione che ha capito che gli convengono, niente altro. Di nuovo, anche su questi terreni, quel che l’attuale panorama politico offre sono, al meglio, frasi fatte, risposte ambigue e nessuno, assolutamente nessun impegno di contenimento della spesa e di effettiva e stabile riduzione del carico fiscale.

Potrei continuare con una lista che comprende sia atti simbolici, come la privatizzazione di RAI e ITA, che riforme invisibili, difficili e cruciali come la trasformazione della PA italiana in qualcosa che assomigli vagamente a quella spagnola o francese ed il progressivo drastico sfoltimento di quella corrotta foresta di sussidi, sottogoverno e distorsioni che chiamiamo “partecipate degli enti locali”. Ma lo spazio manca, veniamo quindi al punto rilevante: esiste una minoranza informata di italiani che disperatamente vuole vengano adottate, o per lo meno messe con forza sul tavolo, alcune politiche considerate generalmente “impossibili” perché ad esse si oppongono la maggioranza degli italiani.

Quante sono queste persone? Non lo so, ma azzardo un numero non del tutto campato in aria: 7-8 milioni. Non me lo sono inventato bevendo: in una prossima occasione farò il possibile per spiegare come sono arrivato a questo numero. Qui mi interessa sottolineaere che una buona parte di queste persone non votano o, se votano, disperdono stancamente il loro voto in uno dei gruppuscoli centristi o nelle componenti “moderate” dei due opposti populismi, ovvero PD e FI. Questa minoranza chiede di essere rappresentata in Parlamento e questa minoranza definisce la constituency, l’unica constituency possibile, per questo mitico partito di centro. Sic et simpliciter.
 

La sua composizione sociale è particolare:  una forte componente di giovani e di persone con  livelli elevati di studio, che abitano nelle grandi città, che viaggiano e spesso anche lavorano all’estero, che ricevono redditi medio-alti e che si informano sui social, sulla stampa internazionale e specializzata. Probabilmente la fetta più dinamica dell’Italia che lavora e che non ha ancora accettato di essere un paese in declino, quella che più facilmente può andarsene quando il sistema politico non la rappresenta e che meno tempo ha da perdere in chiacchiere, mediazioni, talk show e scemenze assortite. Questa gente, da decenni, attende solo una cosa: rappresentanza politica e fatti concreti.

A questa minoranza non interessa votare una roba compromissoria e sentirsi sia liberale che socialista e magari anche un po’ sovranista, così per essere popolari, ovvero populisti. Questa minoranza, che sarà anche più piccola delle falangi populiste ma esiste ed ha un peso socio-economico alquanto rilevante, vuole qualcuno che la rappresenti per quello che è. In toto, chiaramente, esplicitamente, coerentemente.

Questa minoranza moderata vuole un partito immoderato che affermi i propri obiettivi immoderatamente. Se ci sarà da trattare e fare compromessi lo si farà dopo, dopo aver dichiarato che in Parlamento ci si è andati per rappresentare un programma immoderato. Lo si farà solo per ottenere risultati concreti nel caso ci sia maniera di stare nella compagine di governo. I compromessi si fanno dopo, non prima delle elezioni. Prima si decide di rappresentare la propria constituency, non altri, non un’insalata russa di questo e di quello, insapore, incolore, inodore e succube degli opposti populismi. Perché, se annacqui il messaggio, questa base elettorale ti saluta e si occupa d’altro, non perde tempo a votarti.

Il partito che deve risollevare la bandiera di Mario Draghi o sarà immoderato o non sarà. Per fare la politica del pongo c’è da sempre quella roba informe chiamata PD.

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