Recensione del libro di A. M. Banti, La democrazia dei followers, Roma-Bari, Laterza 2020
Il libro dello storico Alberto M. Banti, La democrazia dei followers. Neoliberismo e cultura di massa[i], prodotto di un ciclo di seminari all’Università di Pisa, è apprezzabile per il tentativo di mappare complessivamente la nostra situazione, in mezzo a pandemie, globalizzazione, cambiamenti climatici, strapotere digitale, dominio dei potentati dell’entertainment e della mass culture. Però è un po’ troppo sbrigativo e vittima di idées reçues nella descrizione delle condizioni sociali e macroeconomiche mondiali, impresa da far tremar le vene e i polsi.
Dopo poche pagine è ben udibile la musica che suonerà l’organetto: negli anni ‘80 assieme alla Thatcher e a Reagan è arrivato un bastimento carico di “neoliberismo” e tutto è cambiato, con le aliquote scandalosamente basse per i ricchi (ma anche per il ceto medio), la riduzione del welfare, l’aumento delle diseguaglianze, «il culto mistico del “mercato autoregolato”». Di seguito avviene un tuffo spericolato, stans pede in uno, nei flutti delle politiche anglo-americane, paragonate a quelle italiane, che il “neoliberismo” non l’hanno mai visto neanche in fotografia.
Chez nous c’è stata al contrario una vera passione per il controllo e la regolamentazione, la cui radice - come hanno illustrato A. Alesina e E. L. Glaeser - è la teoria per la quale «i mercati, lasciati liberi di agire, produrrebbero una cattiva ridistribuzione dei costi e dei benefici». In pratica, però, la buro-economia è tale che sono i gruppi ipergarantiti a beneficiare della regolamentazione, anche quando non sono la parte più debole della popolazione[ii]. Per citare l’attualità, il presidente dell’Inps Tridico ha dichiarato che quota 100 è stata appannaggio soprattutto di «lavoratori maschi, nel settore pubblico e con redditi medio alti. E non sembra che abbia prodotto l’auspicato ricambio generazionale»[iii].
Avvalendosi della Breve storia del neoliberismo di David Harvey («figlioccio post-moderno di generazioni di marxisti», lo ha definito Alberto Bisin[iv]), Banti parla della «netta riduzione della pressione fiscale», responsabile di «un più magro bilancio a disposizione dei governi», da cui sarebbe derivato «un taglio progressivo e in qualche caso molto pesante della spesa pubblica»[v]. Come si evince dai molti dati accessibilissimi ovunque, quasi tutti i paesi europei hanno aumentato la spesa pubblica, e in Italia quella sanitaria, per dire, ha continuato a salire ben prima del Covid.
Più avanti troviamo i topoi gossipari delle buonuscite dei top manager italiani e degli effetti sull’ordine pubblico dell’attuale assetto economico: patologie psichiche, devianza, criminalità ecc., dimenticando, per esempio, che negli ultimi vent’anni gli omicidi in Italia sono diminuiti del 50%. Ragionevolmente, John Cochrane si è domandato quale problema rappresenti “davvero” per un bracciante californiano di Fresno o per un adolescente disoccupato di Chicago, che certo hanno vite difficili e molte grane, la disuguaglianza dell’1 per cento superiore[vi].
Come ha osservato tra gli altri Andrea Capussela[vii], il reddito degli italiani è fermo a metà anni ’90 e le cause c’entrano pochino con i modellini dei turboliberisti. La ragione si trova dentro la TFP, dipendendo soprattutto dalla produttività, la quale a sua volta è subordinata agli investimenti e all’innovazione. L’Italia, compiuta la propria convergenza tra anni ‘50 e ‘60, si è fermata quando la prospettiva della distruzione creatrice schumpeteriana ha allarmato le minoranze organizzate che nello status quo stavano ingrassando. All’origine della frenata, la debole rule of law e una classe politica slombata, disponibile più a colludere che a competere, manovrabile dalle suddette cricche. Ha contato del resto anche l’ignavia di un’opinione pubblica ritornata fulmineamente alla beata ignoranza dopo essere stata svezzata da una scuola scadente, lasciata alla mercé di tecnocrati e bidelli di procedure, nonostante sia passato quasi mezzo secolo da quando Karl Weick mostrò in un lavoro ormai classico le differenze insormontabili tra l’organizzazione aziendale e quella dell’istruzione[viii]: correlation is not causation, ma qualche sospetto resta.
Il pamphlet dello storico prosegue con riferimenti a Robert Stiglitz e Thomas Piketty, la cui terza legge del capitale prevede che il suo tasso di rendimento superi quello di crescita complessivo del reddito: r > g[ix]. Secondo Debraj Ray, indubbiamente c’è da ancora dibattere sulla diseguaglianza, visto che per es. le riallocazioni sollecitate dalla crescita irregolare possono essere gestite meglio dai ricchi, che hanno tasche abbastanza grandi per finanziare il capitale umano dei figli; tuttavia aggiunge una quarta legge non trascurabile, secondo cui, crescita irregolare o meno, c’è una tendenza a lungo termine del progresso tecnologico al labor displacement, un punto cruciale che c’entra molto con gli skill acquisibili in un sistema di istruzione funzionante come si deve: passare al popolo informazioni un po’ orecchiate è un bel sintomo di scuola efficiente?
Bisin, dopo aver sopportato a lungo le dicerie sulla globalizzazione come causa della povertà nei paesi in via di sviluppo, ha perso la pazienza: «in realtà questo è falso. Gli indici di diseguaglianza del reddito a livello mondiale sono scesi drammaticamente negli ultimi decenni, in coincidenza con la globalizzazione». Semmai andrebbe precisato che «chi lamenta gli effetti della globalizzazione non ha a cuore le sorti del mondo e dei poveri, ma solo quelle di una piccola parte della classe media dei paesi ricchi»[x].
A pensar male si fa peccato eccetera, ma il polemico e confuso documento del Laboratorio degli studenti dell’Università di Pisa contro il mondo cinico, baro e competitivo (pubblicato nella rivista “Gli Asini”, diretta da Goffredo Fofi[xi]) non sarà anche un risultato - shakerato con neoitaliano e schwa - di seminari di questo genere? Gli universitari la mettono giù dura, deplorando «la cristallizzazione delle disuguaglianze», «il mantenimento di un ordine basato su autorità e comando», «l’incentivazione di forme di competitività estrema», and so on. E avranno forse qualche motivo, in apnea come sono nell’iperconnettività, booster di risentimento e di polarizzazione - come ha rammentato Tom Nichols - perché, incoraggiando un’intimità farlocca e alimentando il pettegolezzo universale, sembra ingigantire l’aggressività da cortile[xii].
Secondo Banti l’idea che ogni esperienza, attività professionale, forma del sapere possa essere tradotta in una competizione venalissima risalirebbe «ai primordi della televisione» (anche nella Rai democristiana e monacale di Bernabei?) e troverebbe negli sport il modello par excellence, avvalorando implicitamente la certezza «che la competizione archetipica, quella combattuta dagli imprenditori sul libero mercato, sia il migliore dei modelli ai quali ci si può ispirare»[xiii]. C’è da chiedersi come abbiano fatto i nostri tenured ad arrivare alla cattedra senza concorrere e lasciare al palo qualcun altro: che so, distribuendo bastoncini di incenso e tenendo workshop di campane tibetane?
E ancora: serpeggiando nel pamphlet la vecchia nozione elitista che la massa sia ottusa, stordita e pronta a seguire i pifferai invece di fiondarsi nelle aule universitarie per inalare aerosol socialisteggianti, si esclude possa essere tutt’altro, una folla costituita di individui che hanno lo spazio per valutare e decidere, soprattutto sui loro consumi e sul loro stile di vita; humanitiesfree (vedi sopra), coatti e consumisti, può darsi, ma era meglio prima del “neoliberismo”, al tempo dei trenini “accelerati”? Infine, le pagine sull’Italia subito dopo l’esecrazione dell’economia americana non potrebbero alludere surrettiziamente a un’analogia tra due sistemi diversi? Veramente nel Belpaese il grosso del PIL è direttamente o indirettamente intermediato dalla politica, una buona percentuale della Borsa di Milano è occupata da aziende statali e partecipate, il welfare è notoriamente spendaccione, troppo sbilanciato sulle pensioni, e tra le prime 50 società mondiali per qualità dell’innovazione non c’è nessuna azienda italiana. Bisin ha rilevato con irritazione come il convincimento, tracimato in tutti i media, secondo cui l’economia del nostro paese sarebbe il risultato di un certo numero di anni di liberismo rappresenti «un bell’esempio del disprezzo profondo per i dati, i numeri, la statistica, la realtà empirica». Chiunque abbia studiato i grafici della spesa nazionale, o del carico fiscale, o dei sussidi alle grandi imprese negli ultimi vent’anni, «non può che vedere linee tendenzialmente crescenti», cioè non proprio il verbo liberista[xiv].
Viva gli anni ‘50, dunque, quando ancora si riverivano i cattedratici e le aliquote marginali più alte erano confiscatorie? È forse la nostalgia di un modello statico e “superfisso”[xv] che, se avesse prevalso, «oggi ci vedrebbe pendolari a bordo di carrozze a cavalli e molti di noi impegnati a spegnere i lampioni alle prime luci dell’alba»?[xvi]. Non è che rispunta l’update della vecchia battuta inglese sulla vera ragione dell’atteggiamento reazionario degli intellettuali di Oxbridge dopo le riforme di Attlee e Beveridge, perché trovatisi costretti a finanziare il nuovo welfare, a dire addio alla governante e all’autista, e a farsi la spesa da soli?
Il meccanismo del capitale che riproduce capitale accumulando tassi di rendimento sempre più alti in direzione asintotica non è più molto attendibile, perché altrimenti oggi i miliardari di Forbes sarebbero ancora i Rockfeller e i Krupp, mentre lo sono i Zuckerberg, i Gates e i Bezos, gli inventori di nuovi beni e servizi all’interno di un prepotente cambio tecnologico, alla larga dalle rendite statali e parassitarie: è significativo che nella biografia di Steve Jobs firmata da Walter Isaacson non compaia un nome che sia uno di un politico. Lo switch digitale sembra rappresentare per Banti quasi un cataclisma o comunque una fatalità, non sfiorandolo il sospetto che qualcuno molto vispo lo abbia ideato e sviluppato, incamerando profitti e redistribuendo molte risorse fiscali. Mentre agli italiani bastava che ce stava ‘o sole e che c’era rimasto ‘o mare (l’homofestivus satireggiato da Alexandre Kojève c’est nous), qualcun altro sulle coste del Pacifico ci dava dentro come un dannato nei garage con gli algoritmi e i kernel: perché noi no?
I problemi ci sono, eccome, ma vanno trattati iuxta propria principia: per es. chiedersi se i Pareto improvements funzionino o i side payments nella concorrenza siano realizzabili, ecc. È ragionevole puntare in termini sociologici all’eguaglianza, postulando un’economia piallata, senza incentivi, ferma ai tempi che Berta filava? E anche il “merito”, ahinoi, è categoria intricata, allotria, para-religiosa o etica; come ha argomentato Robert Nozick[xvii], meglio evitare questo bias professorale, esclusiva dei «wordsmith intellectuals», alloggiati «within the formal, official social system of the schools, wherein the relevant rewards are distributed by the central authority of the teacher». E comunque, già a scuola, nei cortili, si era formato «another informal social system», dove «the greatest rewards did not go to the verbally brightest». Come a dire: egregio dottore, il successo se ne frega del cocco delle prof democratiche, posandosi dove e quando vuole.
Purtroppo è cambiata, e in fretta, la composizione del capitale, che è un altro paio di maniche; guai a chi ha continuato a confidare nel vecchio capitalismo a scarso tasso di innovazione, a conduzione familiare, fondato su ambigue relazioni con i decisori politici[xviii], su vari tipi di regulatory capture e sul “terziario arretrato” a zero valore aggiunto, con costi americani e servizi levantini.
Le “soluzioni”, i segreti per la prosperità e la crescita - ha concluso Cochrane - sono elementari, ben noti, e old-fashioned: diritti di proprietà, rule of law, burocrazia efficiente, libertà politica ed economica. Anche un governo dignitoso, come no, che provveda a buone strade, scuole decorose e leggi necessarie al bene comune. «Confiscatory taxation and extensive government direction of economic activity are simply not on the list»[xix].
[i] Roma-Bari, Laterza 2020.
[ii] A. Alesina e E. L. Glaeser, Un mondo di differenze, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 43.
[iii] L. Cifoni, Pensioni, il presidente dell’Inps Tridico: «Ora flessibilità senza far saltare i conti», in “Il Messaggero”, 2 agosto 2021.
[iv] A. Bisin, Modificare le preferenze del popolo? No grazie, in noisefromamerika.org, 15 luglio 2010. Il libro di Harvey è tradotto presso il Saggiatore, 2007.
[v] A. M. Banti, La democrazia dei followers, cit., p. 4.
[vi]Why and How We Care about Inequality, in Conference on Inequality in Memory of Gary Becker, 25-25 settembre 2014, Hoover Institution, Stanford University; tr. it. in noisefromamerika.org.
[vii] A. Capussela, Declino. Una storia italiana, Milano, LUISS 2019.
[viii] K. Weick, Educational Organizations as Loosely Coupled Systems, in “Administrative Science Quarterly”, 1976, n. 21, pp. 1-19.
[ix] “But saying that r > g implies that capital income will grow faster than labor income is a bit like comparing apples and oranges” (D. Ray, Nit-Piketty. A comment on Thomas Piketty’s Capital in the Twenty First Century, May 23, 2014, in https://pages.nyu.edu/).
[x] A. Bisin, Favole e numeri. L’economia nel paese di santi, poeti e navigatori, Milano, EGEA 2013. Ha osservato Serena Sileoni che, avendo smesso da tempo di intimare allo Stato di mettere giù le mani, come si fa con i lumaconi della mano morta in autobus, «abbiamo scambiato il diritto di essere liberi con la richiesta di essere protetti. Anzi, più esso mostra i suoi limiti, […] più nascono falsi demoni da cui pretendiamo che ci ripari: l’innovazione, la globalizzazione, l’immigrazione» (S. Sileoni, Introduzione, in AA.VV., Noi e lo Stato. Siamo ancora sudditi?, a cura di S. Sileoni, Torino, IBL Libri 2019, pp. 14-5).
[xi]La violenza formativa all’università e non solo, in “Gli Asini”, nn. 90-91, agosto-settembre 2021.
[xii] T. Nichols, Our Own Worst Enemy. The Assault from within on Modern Democracy, New York, Oxford University Press 2021.
[xiii] A. M. Banti, La democrazia dei followers, cit., p. 48.
[xiv] A. Bisin, Favole e numeri, cit.
[xv] Sarcastico neologismo di Sandro Brusco, «un’interpretazione particolarmente rozza dei modelli di Sraffa e Leontief» (cfr. S. Brusco, Perché si dicono tante sciocchezze nel dibattito economico in Italia, noisefromamerika.org, 25 novembre 2011).
[xvi] M. Seminerio, in appendice a L. Oliveri, Addio a uno smart working mai nato, phastidio.net, 2 settembre 2021.
[xvii] R. Nozick, Why do Intellectuals oppose Capitalism?, in Socratic puzzles, Cambridge (Ma), Harvard University Press 1997.
[xviii] «Per l’impresa diventa più importante saper leggere nei mille cavilli dei bandi pubblici di erogazione dei contributi che conoscere le caratteristiche di prodotto o servizio più coerenti con i bisogni del consumatore; avere una mappa dei corridoi del potere più che dei nuovi mercati» (C. Amenta, L. Lavecchia, Mezzogiorno: sudditi o mantenuti?, in AA.VV., Noi e lo Stato, cit., p. 229).
[xix]Why and How We Care about Inequality, cit.