Dedico questo OltreFrequenze a cinque album che ho malauguratamente perso, usciti a ridosso del rilascio dello scorso numero, e che hanno piacevolmente arricchito le ultime due settimane: Life Lover di Kaho Matsui, The Coward di Saul Adamczewski e Marley Mackey, Una mancha de sol degli Anno Solar, Gift Songs di Jefre Cantu-Ledesma, e, soprattutto, Los Thuthanaka di Chuquimamani-Condori e Joshua Chuquimia Crampton. Per chiudere, augurandovi una buona lettura, ci tenevo infine a condividere un disco a me sconosciuto fino a sabato 29 Marzo 2025 quando, in un pub nella zona di Södermalm a Stoccolma, un barista mi ha gentilmente consigliato 1979, figlio unico della formazione punk/post-punk svedese Besökarna. Mi lancio nel definirli i The Cramps svedesi. Bene, mi taccio.
Con Only Dust Remains, Backxwash, al secolo Ashanti Mutinta, segna una transizione significativa nel suo percorso artistico. Dopo aver concluso nel 2022 la sua trilogia concettuale con HIS HAPPINESS SHALL COME FIRST EVEN THOUGH WE ARE SUFFERING, l'artista zambiano-canadese abbandona le atmosfere industriali e claustrofobiche dei lavori precedenti per abbracciare sonorità più accessibili, mantenendo intatta la profondità dei temi trattati. L'album si apre con Black Lazarus, un brano che esplora tematiche di ideazione suicida, fondendo loop vocali e percussioni a creare un'atmosfera solenne. La traccia evolve, introducendo beat trap e sintetizzatori, offrendo una prospettiva più ampia sulle lotte personali dell'artista. La collaborazione con Chloe Hotline in Dissociation dona spessore. Le tracce 9th Heaven e Stairway to Heaven mostrano invece la capacità di Backxwash di fondere hip-hop e post-rock. Il brano conclusivo, Only Dust Remains, riunisce gli elementi tematici e sonori dell'album, offrendo una conclusione meditativa e potente. In sintesi, un prodotto che diventa un passaggio a rappresentare l’evoluzione nel suono e nella narrativa di Backxwash, mantenendo intatta l'intensità emotiva e la profondità lirica che l'hanno contraddistinta, integrandovi però un approccio più melodico e accessibile. È un album che invita l'ascoltatore a confrontarsi con le proprie ombre, offrendo al contempo momenti di speranza e introspezione.
Quattordicesimo album di Destroyer, la volatile formazione a forma ed esperimento di Dan Bejar, nonché una delle principali fonti d’influenza dell’amalgamarsi di rock, jazz e pop barocco degli anni 2000. L'album, ancora una volta, si distingue per arrangiamenti sontuosi e una produzione ricca, caratterizzata da archi avvolgenti e passaggi di piano jazz dal vivo. Questa combinazione di elementi crea un'atmosfera che ricorda le composizioni più sofisticate dei Portishead senza mai lasciarsi sfuggire le influenze di Ziggy e Lou Reed nell'approccio teatrale, nella sperimentazione sonora e soprattutto nella produzione lirica del frontman. La partecipazione di Simone Schmidt (nota come Fiver) nel brano Bologna aggiunge una dimensione emotiva, con la sua voce a fondersi perfettamente con l'atmosfera creata dalla band. Probabilmente il mio disco preferito della compagine capitanata dal buon Bejar dai tempi di Poison Season.
Mi piace pensare che questo disco sia per tutti gli amanti degli Amen Dunes di questo mondo. Che peccato. Vabbè, sentite, prendete il disco qui sopra “recensito” e abbracciatelo forte; anzi, fatevi abbracciare. Un album di una tenerezza, di un calore, un colore indefinibile. Con Glory, Mike Hadreas, noto come Perfume Genius, presenta infatti il suo settimo album in studio, collaudando una collaborazione con Blake Mills e il suo compagno Alan Wyffels alla produzione e creando un'opera in grado di unire vibrazioni e sottotesti di un’emotività anti-retorica spaventosi. L'album si apre con It's a Mirror, un brano che fonde elementi di gothic americana con un sound robusto, richiamando l'estetica di artisti come Elliott Smith e i R.E.M.. La collaborazione con Aldous Harding in No Front Teeth si butta invece verso con influenze che ricordano in qualche modo il grunge. Rispetto ai lavori precedenti, Glory mostra una maggiore apertura collaborativa, includendo musicisti come i chitarristi Meg Duffy e Greg Uhlmann, il bassista Pat Kelly e i batteristi Tim Carr e Jim Keltner, arricchendo il sound, andando a creare un equilibrio tra intimità e potenza (più vicino appunto ai lavori dello stesso Destroyer). La conclusiva title-track, Glory, sintetizza sonoricamente e tematicamente l'album, inchiodando la posizione di Perfume Genius quale mai banale narratore ed interprete di percorsi popolari e più melodici.
Vengo a scoprire aya grazie ad un mixtape di Thom Yorke, il quale proponeva un singolo, somewhere between the 8th and 9th floor, che al primo ascolto mi catapultò in una stanza lynchiana di brutale onirismo. Allo stesso modo, hexed! è un album che sfida, sconvolge e riassesta l’immaginario musicale contemporaneo, e aya, al secolo Aya Sinclair, emerge (nella mia testa si conferma) come una figura audace e rivoluzionaria nel panorama della musica elettronica. Nella sua opera più ambiziosa fino ad oggi, aya mescola hardcore, nu-metal, IDM e noise in un'unica tavoletta di cioccolato. Con una produzione abrasiva e testi crudi, hexed! è un viaggio attraverso l’alienazione e la rinascita, una cronaca personale che si intreccia con quella collettiva, in un mondo distorto e inquietante.Aya utilizza l'elettronica per produrre suoni dissonanti che si mescolano con ritmi sincopati, creando un effetto di caos controllato che richiama la potenza di Death Grips, ma con una sensibilità più vicina alla scena industrial di Throbbing Gristle e alla violenza sonora di Merzbow. I suoni di hexed! sono abrasivi, cupi, ma non mancano di una certa cinica brutalità lirica, in linea con il lavoro di Autechre nel loro periodo più estremo. Aya esplora i temi della dipendenza e della catarsi, ma senza cadere in facili “motivetti” o cliché. In tracce come Time at the Bar la voce urlata di aya si fonde con beat implacabili e suoni che sembrano provenire da una dimensione parallela, riflettendo quella stessa intensità emotiva che si trova nei lavori di The Knife o di Arca, dove la sperimentazione non è mai fine a sé stessa, ma sempre al servizio di una narrazione complessa e potente.
hexed! è il manifesto di una nuova era musicale, brutale e liberatoria, che non teme di scuotere le fondamenta del suono contemporaneo.
di Snapped Ankles
Uscita: 28/03/2025 |
Genere: Post-Punk / Electronic / Experimental
Abbandonando in parte le chitarre post-punk dei lavori precedenti, i londinesi Snapped Ankles abbracciano ritmi metronomici, sintetizzatori oscillanti e linee di basso incisive, creando un sound avvolgente e ipnotico. Infatti Hard Times Furious Dancing si ispira a una serie di influenze che spaziano dalla critica sociale alle sperimentazioni sonore. Il disco esplora temi come la crisi economica, la lotta di classe e l'isolamento urbano, combinando queste riflessioni con un sound che mescola elettronica pulsante e una poetica post-punk. Dal punto di vista stilistico, l’approccio di questo materiale è comparabile a quello di band che mescolano rock psichedelico, elettronica e post-punk, quali Talking Heads e LCD Soundsystem. La sezione ritmica del gruppo ricorda invece artisti come Caribou e Hot Chip, con una tensione più cruda e un focus sulla critica sociale simile a quella di band come Gang of Four o Wire. L’album apre con Pay The Rent (e potremmo chiudere qua), incalzando sul costo della vita. Dancing in Transit emerge come punto culminante dell'album, fondendo percussioni tribali e sintetizzatori psichedelici, evocando un senso di euforia condivisa. Infine, la traccia finale Closely Observed propone una chiusura più sul meditativo, con melodie che richiamano influenze orientali e testi che riflettono sulla rilevanza del concetto di resistenza. Hard Times Furious Dancing è dunque un invito a unirsi nella danza come risposta alle sfide contemporanee, offrendo un equilibrio tra critica sociale e celebrazione collettiva, collocandosi in un contesto di disillusione sociale e riflettendone il disordine.
Che donna! Due capolavori di colonne sonore per uno dei migliori registi contemporanei (Hamaguchi) e ora un meraviglioso disco cantato di difficile categorizzazione. Il titolo dell'album evoca la tragedia greca di Sofocle, ma la sua interpretazione non si limita ai confini di un dramma antico, espandendosi nella ricerca di una risposta universale sulla lotta, la determinazione e il destino. E così, l’ascoltatore viene avvolto da una musica che sembra sospesa tra il passato e il futuro, tra la tradizione e l’innovazione. Il viaggio inizia con October, un brano che mescola elementi orchestrali sontuosi e suoni psichedelici. Subito dopo, ci troviamo in Coma, dove la vivacità della melodia prende il sopravvento, come un colpo di scena che smuove l’album dalla sua densità iniziale. L’atmosfera cambia, ma rimane quella spinta emotiva che definisce ogni traccia. A volte la musica si fa più intima, come in Nothing As, dove la voce di Ishibashi sembra sussurrare segreti antichi sotto la sua stessa pelle, il tutto in un contesto che richiama alla mente l’introspezione di Joni Mitchell. Ma non è solo malinconia, c'è anche un'intensa ricerca di bellezza e di equilibrio tra il naturale e il complesso, rivelando un lato di Pat Metheny e Charles Mingus che fa capolino. La fusione di elementi contrastanti è il cuore pulsante di Antigone. Ogni passaggio di Ishibashi diventa una riflessione sull’ambiguità del tempo e sul continuo mutare delle forme musicali. È qui che emerge la sua affinità con compositori come Jim O'Rourke, in grado di giocare con l'equilibrio tra l’accoglienza e l’estraneità, creando esperienze che risultano sempre nuove, mai dissonanti. Un'opera che continua a svelarsi, pezzo dopo pezzo, senza mai smettere di sorprendere.
Arrivati al sesto album in studio, i Deafheaven segnano un ritorno alle radici del black metal dopo l'esperimento shoegaze di Infinite Granite del 2021. Questo nuovo lavoro combina la potenza del metal estremo con passaggi melodici, tornando con astuzia dalle parti di Sunbather e New Bermuda. La produzione dell'album è caratterizzata da chitarre distorte, batteria incalzante e le tipiche urla di George Clarke, elementi che richiamano anch’essi il sound di album precedenti. Tuttavia, la band non si limita a riproporre il passato e in brani come Heathen propongono un'integrazione tra le sonorità più dure e le influenze più melodiche introdotte nel lavoro precedente. Le collaborazioni con artisti come Jae Matthews dei Boy Harsher e Paul Banks degli Interpol aggiungono profondità al progetto, offrendo momenti di sperimentazione ad arricchire l'esperienza d'ascolto. Inoltre, brani come Body Behavior spaziano agilmente su tematiche solide quali le dinamiche di potere e le relazioni familiari, dimostrando anche un’ulteriore maturità lirica raggiunta dalla band. Concludendo, Lonely People With Power funge da equilibrio tra aggressività e melodia, consolidando la posizione dei Deafheaven tra i principali innovatori del loro genere.
di Black Country, New Road
Uscita: 04/04/2025 |
Genere: Alternative-Rock / Progressive-Folk
I Black Country, New Road abbandonano definitivamente le furie d’esordio e si lanciano in un quello che potremmo definire il remake della loro avventura musicale più riflessiva (a parer mio già tentata/avviata con il meraviglioso Ants From Up There), nonché intima e sorprendentemente serena. Infatti, dopo l'uscita del frontman Isaac Wood nel 2022, la band non si limita a cercare di rimpiazzarlo, ma sceglie di seguire un percorso totalmente nuovo, dove le voci corali e la delicatezza degli arrangiamenti sono al centro. L'album fonde influenze di folk e rock progressivo, ma anche una forte impronta baroque pop che rimanda a Magnetic Fields e Joanna Newsom, creando atmosfere che spaziano dalla dolcezza all'inquietudine. La produzione è un crogiolo di suoni acustici e arrangiamenti intricati, con l’uso di mandolini, chitarre classiche e flauto dolce, che arricchiscono il tutto di un’eleganza rara nel panorama rock contemporaneo. Le voci, ora condivise tra Tyler Hyde, Georgia Ellery e May Kershaw, formano un tessuto armonico che richiama l’influenza della scena folk britannica, ma con una dissonanza che non lascia mai il senso di completezza totale, come un puzzle che lascia spazi vuoti per l’immaginazione dell’ascoltatore.
I testi giocano con un immaginario che è a tratti pastorale e a tratti grottesco. Brani come Salem Sisters e Socks riflettono una natura complessa, dove l'idilliaco si mescola a temi più cupi e ambigui, creando una sorta di tensione tra ciò che è bello e ciò che è inquietante, quasi come se ogni canzone fosse una poesia da decifrare. Questo contrasto di luci e ombre si riflette perfettamente nelle melodie, che pur mantenendo una delicatezza acustica, spesso si spingono verso territori più inquietanti, quasi psichedelici.
Un salto che è al tempo stesso introspettivo e teatrale, dolce e amaro.
Quando andrete dal dentista pregherete di trovare questo quale sottofondo in sala d’attesa.
Un lavoro che affonda le radici nella tradizione della musica popolare italiana senza sprofondarci, spingendosi di rinculo verso nuove sperimentazioni sonore (intento già in qualche modo dichiarato dalla bellissima intro, Macaia). Il titolo dell'album evoca l'immagine di un paesaggio denso di storie e ricordi, quel vento che citava Paolo Conte in Genova Per Noi, un territorio in cui l'artista riesce a intrecciare l'intimità del folk con la vivacità e la contemporaneità del pop. La Maccaia diventa così una sorta di ponte tra il passato e il presente, un’opera che racconta di legami, di luoghi e di emozioni profonde con una leggerezza che si fa intensa. Gaia Banfi dà vita a un disco che si muove con naturalezza tra la dolcezza e la malinconia; brani come Piazza Centrale evocano immagini familiari e calde mentre Amar porta l’ascoltatore in un viaggio più intimo, fatto di emozioni e ricordi che sanno di nostalgia. L'uso della sua voce penetrante si fonde perfettamente con arrangiamenti che spaziano dal minimalismo alla ricchezza orchestrale, creando uno spazio sonoro che lascia respirare le parole, quasi a lasciare una sensazione di pace interiore. Ciò che sorprende di La Maccaia è la sua capacità di rimanere ancorato alle radici musicali italiane, ma al tempo stesso di spaziare e mescolare influenze moderne, rendendo ogni traccia fresca e originale. La scelta di includere temi quotidiani e universali, come l'amore e la solitudine, senza mai cadere nel banale, è una delle sue forze, rendendo l'album emozionalmente coinvolgente. Sulla scia dell'egregio lavoro del pioniere Iosonouncane, di Daniela Pes, Massimo Silverio & co. (nonché Trovarobato docet) Banfi si fa cantautrice sensibile ed empatica. Il suono delicato degli arrangiamenti si mescola perfettamente con le sue parole, portando al tema centrale del disco, nonché il tempo che passa e le piccole cose che ne scandiscono le lancette. Non c’è fretta nel suo canto. “La mia sacra sera trema ad abituarsi”
di Sam Gendel, Nate Mercereau
Uscita: 04/04/2025 |
Genere: Experimental / Ambient / Jazz
Se ne parla pochissimo ma Sam Gendel, sia in termini di produttività che di network stilistico e soprattutto innovativo, si sta prendendo la scena sperimentale/alternativa a suon di dischi meravigliosi. In un mondo musicale sempre più definito dalla fusione di generi e tecniche, digi-squires si fa spazio come una dichiarazione di libertà. Sam Gendel e Nate Mercereau, due dei nomi più innovativi del panorama jazz contemporaneo, combinano il loro virtuosismo strumentale con la tecnologia, dando vita a un progetto che sembra sfuggire a qualsiasi etichetta. L'album si presenta come un paesaggio sonoro fluido e cangiante, dove il jazz tradizionale e le manipolazioni elettroniche si fondono senza soluzione di continuità, creando un'atmosfera sospesa tra il fisico e il digitale. Le tracce si snodano con una delicatezza che sfiora l'astrazione, ma senza mai cadere nel vuoto. C'è una qualità meditativa in tutto l'album, che invita l'ascoltatore a perdersi nei dettagli, a riscoprire il piacere di ascoltare e osservare come ogni suono, ogni nota, si inserisca in una scultura sonora in continuo mutamento. La vera forza di digi-squires sta nel modo in cui Gendel e Mercereau giocano con il tempo e la percezione. La loro abilità nell'incorporare influenze medievali e rinascimentali, mescolate con l'elettronica più sperimentale, crea un effetto di straniamento che è al tempo stesso affascinante e disorientante. Ci sono momenti in cui il suono sembra evaporare, per poi tornare in forme completamente nuove, riflettendo quella stessa fluidità che contraddistingue l'approccio musicale dei due artisti. È come se il tempo stesso fosse dilatato, piegato e ripensato. Anche qua, come per la bravissima Gaia Banfi, un dialogo tra passato e futuro che si svela lentamente, traccia dopo traccia.
di Dirty Projectors, David Longstreth, stargaze
Uscita: 04/04/2025 |
Genere: Experimental
David Longstreth, leader dei Dirty Projectors, intraprende qua un audace viaggio che spinge i confini della musica orchestrale contemporanea verso il rock sperimentale. Collaborando con la berlinese stargaze, orchestrina “da camera” conosciuta per il suo approccio non convenzionale alla musica classica, Longstreth crea un’opera che si distanzia dai tradizionali esperimenti orchestrali, facendo risuonare una riflessione acuta sulla fragilità del nostro pianeta e la sua bellezza irripetibile. Ispirato sia al lavoro di Mahler Das Lied von der Erde che al libro The Uninhabitable Earth di David Wallace-Wells, l'album esplora la dicotomia tra speranza e apocalisse, tra la forza distruttrice dell’uomo e la potenza della natura. L'approccio compositivo è multidimensionale, con arrangiamenti orchestrali che spaziano dalla delicatezza di un pianoforte solitario a passaggi dissonanti che sfidano le leggi convenzionali della musica classica. La title-track, The Song of the Earth, si muove su delicate linee di archi, evocando la profondità del paesaggio naturale, mentre l'uso dei sintetizzatori e degli strumenti rock inserisce una vena di inquietudine che sfida l’armonia tradizionale. Questa fusione è una rappresentazione sonora dell'equilibrio precario tra la magnificenza del mondo naturale e la sua inesorabile rovina, un tema che riecheggia nelle composizioni di artisti come Terry Riley, nell’intensità lirica e poetica di Nick Cave e in complesse melodie simil-Radiohead. Collaborazioni come quelle con Phil Elverum (Mount Eerie) e Steve Lacy (The Internet) arricchiscono ulteriormente. La presenza della voce di Elverum, dal timbro malinconico, ci riporta ad un'interpretazione primordiale delle scelte mentre il tocco di Lacy dona quasi un'atmosfera più soul e contemporanea, andando a creare un contrasto affascinante con l’opulenza orchestrale. Il risultato finale non è solo un’opera musicale, ma un'esperienza emotiva che richiama alla mente il lavoro visionario di Sufjan Stevens in The Age of Adz, dove il folk si mescolava con la complessità orchestrale e la profondità filosofica.