Il 2025 vola e arrivano le prime, nonché più attese, uscite tra le preannunciate.
Come al solito gli album che più mi sento di consigliarvi, cercando di tagliare fuori quei dischi che seppur qualitativamente di buona fattura non hanno lasciato il segno nei miei auricolari.
Have fun!
di Laura Agnusdei
Uscita: 31/01/2025 |
Genere: Electroacoustic / Jazz / Experimental
Com’è che era più? Quando il gatto non c’è, i topi ballano? Beh se dovessi dirvi come mi immaginerei il suono della natura qualora si spegnesse tutto l’artificio probabilmente penserei ad un disco del genere. Ad una tanto spigolosa quanto ottimista messa in scena dell’apocalisse come quella portata in campo da Laura Agnusdei con Flowers Are Blooming In Antarctica.
A sei anni da Laurisilva, la compositrice e sassofonista propone una dura e concreta riflessione sull’asse uomo-natura. Jazz sperimentale e spirituale, elettroacustica dai toni tropicali e nord-africani, balzi di exotica di piena estasi, a modo suo un progetto psichedelico.
Si parla di fantasia, eco-conflitti, della figura umana nell’eco-sistema, di alienazione e di alieni. Uno stacco dalla realtà eppure così presente e attuale. Come anticipavo e ripreso in are we dinos?, una doccia di realismo non indifferente però dalla sorprendente lente dei bambini.
Psichedelia! I Prison condensano un viaggio di prolungate sessioni di improvvisazione in brani più strutturati, senza perdere di vista l’identitaria essenza caotica sospesa tra noise e, manco a dirlo, rock psichedelico. Il loro LP di debutto, Upstate, li aveva incapsulati all’interno di una quasi agrodolce e allucinata, Downstate ricalibra il tiro, spingendoli verso territori ancora più vasti e imprevedibili. Registrato a Rockaway, nel Queens, l'album vede la partecipazione di amici, collaboratori presenti e passati, a mosaico di un’idea collettiva:oltre ai membri storici della band, Dave Smoota Smith (trombone) si unisce all’ensemble, importando nuove sfumature alla già ricca tavolozza. Il risultato è un disco che dona energia rinnovata, bilanciando la loro attitudine noise con incursioni nel blues e nel jazz. C’è una traccia, Travelling Lady (In Prison), che esemplifica il motivo per cui sia gli amanti dei Grateful Dead, degli Spaceman 3 che dei The Stooges finiranno per amarlo.
Il buon MIKE a 26 anni ha prodotto una mole di lavoro che alcuni artisti non producono al doppio della sua età; peraltro senza citare la costanza nel mantenere elevata l’asticella qualitativa del suo contributo alla scena hip-hop contemporanea. Il decimo album, Showbiz!, è ad oggi il più spirituale e raffinato del rapper-producer di Brooklyn. L’esplorazione, nonché l’auto-riflessione, dei temi della fluidità del concetto stesso di residenza e del farvi ritorno, della figura materna, del senso di appartenenza non sono lontani da quello che negli anni MIKE era già stato in grado di generare, avendo sempre saggiamente esplorato quesiti esistenziali; tuttavia, la capacità di contemplare attraverso il livello di limpidezza espositiva che osserviamo in questo disco è davvero fuori dal comune. Alternando ponderatamente vulnerabilità a momenti di sicurezza, pezzi come Then we could be free… riconciliano alla pazienza, The Weight (2k20) esemplifica lo scoprire se stessi attraversando il dolore e la perdita, Spun Out tira fuori uno stile più vicino all’estetica delle scene di Memphis e Philadeplhia mentre Lucky enfatizza la volatilità degli istanti.
Il tappeto di beat sul quale dilaga l’ineccepibile lirismo di MIKE è autoprodotto e si compone principalmente di campionamenti e loop irregolari ma non disdegna attimi di dub techno e boom-bap d’altri tempi.
A riassumere siamo a ciò che sta sopra la consacrazione di un artista, siamo nello spazio tempo delle turbolenze, siamo testimoni di un giovanissimo talento pienamente a suo agio nella sua arte, nel suo mondo e in grado di continuare a spingersi oltre i confini pur rimanendo fedele alle sue radici.
Niente teaser, niente promozione. Artista a 360° da South London, klein continua a rompere i cardini della convenzione, a questo giro aggiungendo più chitarre e dando più ampiezza “cinematografica” al collaudo sonoro. Molti cambi di ritmo, brani come crush che partono potenti e più ritmati per poi diluire nell’orchestralità; 6 minuti più strutturati, in qualche modo vicini a fragmenti simil-Boris (la band mi raccomando), in tracce tipo role of fear. Oppure, con un titolo che sembra un omaggio a David Lynch, nobody sees what the tree knows lancia sul piatto attimi di puro Metal. Insomma un minestrone di frangenti che da un momento all’altro sono pronti a tornare alla casa madre ambient, a tratti drone, che fa da collante a tutto il disco.
Meticolosamente scomporre un post-genere. E sarebbe come mentire negare che il quintetto formatosi a Brighton nel 2016 non lo faccia dal giorno uno. Al terzo disco però il processo è talmente maturo che apre le porte a qualcosa di nuovo, c’è aria di cambiamento. I tempi sono maturi. Il featuring di Clarissa Connelly chiude un tracciato da 45 minuti a giro. Cowards rifiuta l’esposizione a qualsiasi tipo di classificazione genericamente specifica. Un punto nella scena musicale che innanzitutto porta agli occhi di tutti l’ennesima prova di una continua evoluzione e che soprattutto incorpora una cura nei dettagli e nella costruzione sonora quasi maniacale. Momenti come Crispy Skin mostrano un'affinità con il krautrock più serrato, con un groove ripetitivo e linee vocali che si dissolvono in un trip lisergico, mentre Building 650 si avvicina alle distese dei Talk Talk più spettrali, con arrangiamenti sottili che si aprono a esplosioni improvvise. Però addentrandosi ce n’è per tutti: dai periodi più sperimentali di Kate Bush ai Bat For Lashes, Scott Walker e perché no gli XTC. Se nei lavori precedenti gli Squid si sono più facilmente mossi tra ritmiche concitate e una teatralità totalmente post-punk, qui la tensione è più sottile, più insinuante. È un disco sì meno immediato ma di una consapevolezza unica. A mio avviso questa è la consacrazione del gruppo probabilmente più interessante e maturo, sicuramente più arzigogolato, dei vari usciti dal calderone della nuova wave post-punk/noise-rock britannica.
di Dean Blunt, Elias Rønnenfelt
Uscita: 07/02/2025 |
Genere: Experimental / Indie / Folk
Roy Chukwuemeka Nnawuchi, in arte Dean Blunt, che si tratti di produzioni o distribuzione , è da sempre in cerca dell’eclettico. 16 minuti, resi disponibili in primo luogo su YouTube, e questa volta inquadrati al fianco di Elias Rønnenfelt, nota figura della scena alternative quale cantautore, poeta, nonché leader della lucente formazione di post-punk danese Iceage. lucre è un “oggetto” che rispetto tantissimo perchè seppur estremamente breve racchiude un elemento che spesso viene appunto a mancare in opere ben più stratificate e pompose: la concettualità dell’essenza. Riuscire a dare un volto preciso alla propria idea senza dover passare per estreme ellissi è talvolta considerabile un evento. Il cosiddetto dono della sintesi. Una specie di raccolta di ballate scarne che, a differenza di altri esperimenti del producer britannico, più tendenti al decostruire generi come la club music e l’hip-hop, ricordano momenti di indie-folk o di un post-punk che apre al lo-fi. Sembra di avere a che fare con i frammenti di un ricordo, glitch e silenzi di una sveltina. 2 e 5 sono i due punti più alti di una montagna russa ben congeniata. Fidatevi, finirete per rifare fila più di una volta.
FKA twigs, Tirzah, John Glacier, SOPHIE e Sega Bodega chiusi in studio con Caroline Polachek a produrre e supervisionare. Per me questo è choke enough, in grado di rubacchiare qua e là e di farlo suo alla Tarantino, come insomma i grandi sanno fare. Uno stile davvero interessante, molto dipendente da una estetica glitchata, delicata, volendo sperimentale ma che si apre totalmente a canali di accessibilità pop. Galore introduceva una visione che ora diventa realtà e cognizione per Oklou in questo suo nuovo capitolo. Tante le influenze, non avendo citato a caso ad inizio trafiletto, e molteplici le atmosfere che rimbalzano da asintoti più legati al club a segmenti più sintetici, futuristici (la compianta SOPHIE appunto).
Un album coerente.
In trio ma sempre sullo scorrere dei bordi, James Brandon Lewis, tra i principali volti del free-jazz odierno, persegue la sua missione nel celebrare i giganti di un passato sempre più lontano aggiungendo tasselli di novità ad un comparto sonoro tecnicamente ineccepibili. Il sassofonista esplora le connessioni tra il genere madre in questione e strutture più vicine a groove hip-hop, afro-futuriste e chi più ne ha più ne metta. In Prince Eugene, elementi dub e reggae spezzano le convenzioni jazzistiche, evidenziando una versatilità ormai nota ma in qualche modo costantemente rinvigorente. Five Spots to Caravan è chiaramente un omaggio esplicito a Duke Ellington, filtrato attraverso un’ottica post-moderna che ne ribalta le dinamiche tradizionali. Brani come Apple Cores #3, invece, portano il sax su vibrazioni che sembrano cercare la sua voce tra linee di basso pulsanti e una batteria che spinge in avanti senza tregua. Il pezzo è parte di una suite composta da tre movimenti, con richiami a John Coltrane e Pharoah Sanders, ma con un’estetica che guarda alla contemporaneità. Un lavoro d’urgenza, chirurgico.
di Sharon Van Etten
Uscita: 07/02/2025 |
Genere: Chamber-Pop / Alt-Rock
Ci vuole dell’onestà intellettuale. Sharon Van Etten potrebbe anche cantare l’elenco del telefono che mi farebbe impazzire ugualmente. Detto ciò, quello che abbiamo di fronte questa volta è qualcosa di diverso rispetto alla già buona dose di evolutività a cui la stessa ci aveva abituato. Frutto di lunghe jam session con la sua band (Sharon Van Etten & The Attachment Theory appunto), il nuovo album della nativa di Belleville, New Jersey, è viscerale, pregno, caldo, probabilmente la sua versione più estrema ad oggi. Abbandonata la sfera cantautorale più classica, ci si avventura nella destrutturazione minimale, sfociando in toni gotici, già negli anni proposti a rate, ma soprattutto quasi industriali e post-punk. Southern Life (What It Must Be Like) sembra uscita da Pornography, introducendo a spanne un qualcosa di Melody’s Echo Chamber; Live Forever l’avrei vista benissimo all’interno del soundtrack di Love Lies Bleeding della bravissima Rose Glass, al confine con l’industriale e il periodo dark del synth-pop e della new-wave. Idiot Box è infine l’esempio dell’incorporazione definitiva della Sharon Van Etten che noi tutti abbiamo imparato ad amare dentro un qualcosa di superiore, rinvigorito eppur sempre di nodale sostanza. La sua voce mostra ancora una volta una versatilità pregevole, passando da falsetti delicati a sussurri onirici. Considerando anche i temi trattati nel disco, dalla mortalità alla elusività dell’amore, sarà questo un nuovo inizio o l’ennesimo step di una sorprendente autrice?
di Lawrence English
Uscita: 07/02/2025 |
Genere: Ambient / Experimental
Uno dei principali volti della scena ambient/drone, Lawrence English persegue la sua totale ricerca sul suono quale spazio percettivo. Una suite di otto movimenti, all’interno della quale il tempo pare dilatarsi e la materia screpolarsi, manipolata dalle sfumature dei vari interpreti-spalla dello stesso Lawrence English. Fra i vari nomi appaiono infatti Chris Abrahams, Jim O’Rourke, Dean Hurley, Chuck Johnson e l’ormai ex Swans Norman Westberg. Le tracce si inseguono come onde sonore, loop sovrapposti, con field recordings impercettibili che emergono dal nulla prima di dissolversi nuovamente. Un album che richiede un ascolto corrotto, pronto a concedersi ad alterazioni di ordine e tempo, che conferma Lawrence English come uno dei più importanti architetti del suono contemporaneo.
Questo OltreFrequenze apre e chiude le danze con Laura Agnusdei, qua ospite nella traccia Sex Toys. Venni a conoscenza dell’allora terzetto, ora quartetto, Korobu nel 2022 con la traccia Tongue on Tongue, estratta dal loro LP d’esordio Fading/Building, e rimasi in qualche modo fin da subito incuriosito dal connubio di palette di timbri e accordi generati dal gruppo bolognese. Sempre per Locomotiv Records arriva K for Key, boccata rigenerante di somma concretezza che rovescia in primo piano il bagaglio di generi sullo sfondo per poi mescolarli sul tavolo e distribuire le carte attraverso un ascolto pulito, derivativo il giusto e neanche per un istante di maniera. Partiamo nel ‘68 con Silver Apples degli stessi Silver Apples, approdando per due brevi soste rispettivamente nel 1973 con Faust IV e nel 1975 con Deluxe degli Harmonia; di lì in poi Clinic, Gang Gang Dance, Liars, i più recenti The Smile nel verniciare la stanza, senza privarsi, con Cassandra, di un chiaro omaggio all’autore del mio disco preferito Robert Wyatt, per poi riassumere il tutto con un singolo geniale, Park, il cui folk spezza ma allo stesso congiunge i lembi di quello che nel complesso definirei un lenzuolo di stoffa spessa, di un colore caldo e, soprattutto, di rara manifattura.