Ma ciao! Siamo giunti a fine Gennaio e la seconda metà del mese ci ha regalato tanta carne da mettere al fuoco. Le Marche alla ribalta, una cannonata da Oakland e l’ecletticità di Benjamin Booker...
Prima di cominciare, menzione d’onore all’ultima uscita di Bad Bunny, ‘DeBÍ TiRAR MáS FOToS’, in qualche modo snobbata perché non recuperata per tempo e che avrei serenamente aggiunto alla selezione perché meritevole. Probabilmente una delle migliori interpretazioni di quell’universo sonoro degli ultimi anni; sia dal punto di vista formale che sostanziale considerando l’accezione narrativa del contenuto nel voler richiamare, o meglio ricordare, il coraggioso e toccante passato coloniale di Puerto Rico.
Buona lettura!
Ex-batterista punk, formazione jazz, ha collaborato con Helado Negro e Little Dragon, Ela Minus esplora geometricamente gli spiragli di luce.
ABRIR MONTE funge da dichiarazione di intenti, riprendendo concettualmente una frase che rimbomba nella testa di Gabriela Jimeno sin dalla giovane età: attraversare gli arbusti della giungla per trovare un nuovo percorso di crescita. Un intreccio di accordi da spalmare su leggere stratificazioni noise e synth. Coerentemente tutto parte dalle montagne quando nel ‘22 affitta una baita nel nord del Messico. Qua le sonicità del precedente e già molto interessante acts of rebellion tornano e trovano conforto in una serie di novità stilistiche che sfociano su sentieri bazzicati da arpeggi e personaggi come Kelly Lee Owens e a tratti Björk, soprattutto nella mia traccia preferita UPWARDS. Un album estremamente legato alla natura. Ai bordi di una pista da ballo chiamata Buco di Darién.
“I’d love to save you, but I’ve got to save myself, first”
Questo è lusso, un folk fatto di paesaggi, di esperimento, di ramificazione. Mi ha ricordato tantissimo il periodo ‘74-79 più jazz di Joni Mitchell ma anche regali odierni quali ML Buch. Chiaramente l’eredità del bellissimo Ignorance si sente però questo Humanhood si difende a colpi di scelte che sfidano la pigrizia dell’adagiarsi. Secondo me il disco trova linfa nuova dalla title-track in poi, rifugiandosi in orchestrazioni più velate che esaltano a modo loro una prima parte più vicina a colleghi nordici come Múm e Sigur Rós in termini di arrangiamenti. Un lavoro compatto che conferma l’estrema raffinatezza della band canadese capitanata da Tamara Linderman.
Porca miseria. Non mi ricordo cosa dicesse Montanini sulle Marche però se questo è un biglietto da visita chapeau. Trarre una lista delle influenze di questi ragazzi in nero è tanto facile (una è sicuramente qua sotto da qualche parte tra gli altri titoli suggeriti) quanto stancante. Death Grips, quella pionieristica nicchia composta dai vari E L U C I D, billy woods (Armand Hammer), ShrapKnel, la stessa madre regina Moor Mother, gli Injury Reserve, Danny Brown e la lista potrebbe continuare a lungo per poi scontrarsi con un omaggio ai Kraftwerk e puntellature dalle parti di Kassa Overall, Gonjasufi e Shabazz Palaces. Prendete tutto questo e infilateci del graffiante hip-hop di chiarissima matrice nostrana che non disdegna l’industriale, loop magnetici e un’avanguardia punk. Otto pezzi che per me rappresentano una sola cosa: unione. Crepa Nel Buco parte dalla piccola provincia per parlare di quella grande, l’Italia, destinata a crollare indifferente e sguazzante nella sua presunzione.
Che bomba ragazzi. Complimenti.
Ormai siamo abituati al fatto che questi ragazzacci in giro da una trentina d’anni non si riducano più soltanto al caratterizzarsi per l’inconfondibile marchio su chitarra ma che bensì i sintetizzatori siano diventati egualmente parte integrante del loro suono d’insieme. Lo stesso discorso vale per la ricerca della canzone versione “director’s cut”, ora ridotta a durate accessibili. La novità a questo giro risiede nella scelta di produzione, affidata al buon John Congleton, e in utilizzo della voce stessa di Braithwaite rinnovatamente dolce e tenue (vedi 18 Volcanoes). Lo stesso tendere ai prismi dell’elettronica appare particolarmente marcato. Vedo questo The Bad Fire tanto come continuazione di un percorso più accessibile, esaltato dal precedente As The Love Continues (finito in testa alle classifiche), quanto allo stesso tempo un affacciarsi preoccupantemente sorridente a tempi distopici. Poi vabbè, ormai e da tempo giocano a memoria. Che gli vuoi dire.
Trascendiamo l’hip-hop tradizionale e collochiamoci per l’ennesima volta dalle parti della miracolosa cerchia già più volte citata (tra i featuring dell’album lo stesso E L U C I D). Facciamo ancora un passo e identifichiamoci in Goyard, il protagonista di un concept album diviso in due parti. Questo incarna le contraddizioni e le trappole della fama, della celebrità, fino a scoprirne gli scalini danteschi che portano all'auto corrosione. Nella prima metà Ghais Guevara esplora il trionfo e il lusso. Pezzi come 3400 servono per riflettere sul distacco e criticare una cultura che celebra questa trasformazione e gode dell’alienazione dorata derivante dalla trappola del successo. In questa parte le produzioni riflettono le sfarzosità di corte e rimbombano maestose. Il rapper di Philadelphia costruisce fin da subito un lirismo complesso e uno stile ben identificabile. A seguire l’intervallo, il declino. Una grinta narrativa più oscura e introspettiva, paranoica, apre le porte ad una critica verso tutta l’industria musicale. Non un album leggerissimo, tantomeno spera di esserlo. Un’esperienza pseudo cinematografica che costringe a guardare in faccia alle drammatiche sfumature del procedere. Un’amara storia neorealista sulle gerarchie del successo. E parlando di successo, questo disco non è solo un trionfo per Guevara, considerando che è il suo LP di debutto, ma una pietra miliare del cosiddetto conscious rap odierno.
Vi piacciono la No Wave, i This Heat, Glenn Branca, gli Horse Lords e For a Reason dei Lifetones? Allora chiudete qua e andate a spararvi questo disco nelle cuffie. Alla prossima!
A quasi 8 anni dalla sua ultima uscita, Benjamin Booker sale sulle spalle di quel prodigio di Kenny Segal e forgia il gioiello di cui avevamo bisogno. Difficilmente inquadrabile in un genere, LOWER ha sicuramente stile da vendere. Mentre il precedente Witness ruotava più attorno a sonorità ospitali, soul appunto, qua ci troviamo in una fredda stanza d’attesa. La stessa stanza dove maturano i pensieri, quelli per cui non vedi l’ora finisca la visita per esplorarli. L’uso di questo 808, talmente quadrato da sembrare fuori luogo, integrato a distorsioni, riff malefici, melodie che in qualche modo riportano a Jeffrey Lee Pierce, definisce fin dalla prima splendida traccia BLACK OPPS su quale terreno di gioco si svolgerà la partita. Poi vabbè si lancia LWA IN THE TRAILER PARK e non capisco se sia il cuginetto di The Collective della maestra Kim Gordon o semplicemente l’inizio dell’ennesima chicca targata Syndakit. L’album si concede anche qualche passaggio più introspettivo, delle proto-ballate totalmente in linea con la palette di questo progetto.
Questa roba rinfresca, interessa, aggiunge qualcosa. POMPEII STATUES, REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC e SAME KIND OF LONELY sono il frutto di quella volta in cui ai Mad Season è stato chiesto di tornare con qualcosa che più si addicesse a quel ragazzino di colore che nel trailer park fuori da Tampa ancora sognava la chitarra di Marc Bolan.
Quel biondo genio morto a 27 avrebbe adorato questo artefatto.
Secondo me si tratta solo di far capire che questo è noise-rock di ottima qualità seppur non più originalissimo e potenzialmente inferiore all’esordio The Great Regression. C.A. Francis, frontman del quintetto di Brighton, spicca per trovate in termini di scrittura, di timbro e di interpretazione. Tracce come Taxi Man girano il volante verso un garage sporco che in qualche modo rinfresca la stanza di un genere che forse inizia leggermente a suonare stantio data la lunga fila di artefici che sembrano abbeverarsi dal medesimo pozzo.
Il terzo disco sarà la prova del nove.
24 Gennaio, Kathryn Mohr per The Flenser, LP di debutto. Registrato all’interno di una fabbrica di pesce abbandonata in Islanda. Waiting Room è teso. Già dalla copertina si percepisce l’umidità, la brina, la desolazione. Frutto di field recordings, dell’immateriale voce della nostra, di qualcosa di Grouper, dei Bing & Ruth e dei Duster, in alcuni momenti della prima Polly Jean (Harvey) e dell’indole di Emma Ruth Rundle, di timida elettronica e di un richiamo di sintetizzatori. Tutto però dannatamente nuovo. Tracce come Driven riconducono Enya su sfumature che più si addicono a Chelsea Wolfe, Take It e Elevator sembrano appunto provenire da Rid Of Me. Come nello stesso disco possano sbocciare stupori diametralmente opposti come Take It e Prove It ancora non è chiaro. Più facile da decifrare è che questa ragazza da Oakland ha appena sfornato una dilatazione temporale unica, anche qua filmica, fortunatamente non consolatoria.
La title-track sul finale, Waiting Room, è sbalorditiva e chiude le danze con una stregata combinazione di echi, distorsioni, la quasi metrica apparizione della sua eterea voce.
Il disco più bello di Gennaio.
Dichiaratamente ispirato dalle atmosfere dei club underground di Praga, FKA twigs conduce l’ascoltatore dentro un album che funge da definizione Treccani di quello che è letteralmente nuovo termine. “EUSEXUA” prova a concretizzare l’alternarsi euforico e allo stesso tempo limpidamente chiaro dal punto di vista creativo che si prova subito prima di un’epifania artistica, di un orgasmo. Senza troppi giri di parole questo è un bellissimo album pop che, a mio avviso, è abile nel rimanere in qualche modo composto su queste tele techno, house, dance, drum and bass che si alternano nel richiamare le esperienze sopra citate.
Sono finito su questo disco attraverso la traccia Nitaangaza e per un attimo pensavo di aver trovato un qualche progetto b-side dei Khruangbin. Ma proprio per niente. L’appena citato singolo, ma un pò tutto questo interessantissimo (non tanto per l’intreccio, già storicamente esplorato, bensì per la classe e rifinitura in termini di esecuzione) connubio di influenze derivanti dalla sperimentale pura quale colonna portante, dall’afro-latino e dal soukous congolese, parte per una tangente e finisce per colmare un intero circuito di concezioni ritmiche davvero notevole. Vale la pena, a mio avviso, buttarsi prima in un pezzo del 2020 di Alejandra Càrdenas Pacheco (in arte Ale Hop), chiamato La Procesion, per cogliere la radice di un lavoro così denso, nonché figlio di un matrimonio combinato, quale Mapambazuko. Una volta fatto ciò sarà l’eleganza della chitarra del congolese Titi Bakorta a guidarvi e ad estendere, o meglio ottimizzare, la visione ben chiara della chitarrista sperimentale peruviana.
BLACK'!ANTIQUE", quarto album solista di Pink Siifu, nonché dimostrazione di quanto i confini di un genere siano esplorabili. In questo lavoro, si continua a sperimentare con una fusione di soggetti stilistici, dando vita ad un universo tanto melodico quanto audace. Tra le collaborazioni compaiono Mother Marygold, Liv.e, Ho99o9 e Kal banx, e vari nomi come Nick Hakim, Fatboi Sharif e Roper Williams in fase produttiva. Le tracce spaziano da brani industriali e sperimentali, principalmente nella prima metà, a sonorità più psichedeliche e pseudo-soul nella seconda. TRANSLATION! incorpora addirittura influenze samba. Insomma ennesima prova ambiziosa dell’artista nativo di Cincinnati, Ohio che dimostra di continuare ad essere una delle voci più eclettiche del panorama hip-hop.