Bentornati! Appuntamento dannatamente folk, verboso, oserei dire da salotto, di OltreFrequenze.
Il 2024 volge al termine e il mercato discografico lascia spazio agli ultimi spiragli per le vostre classifiche di fine anno da scambiarvi a Natale. La selezione odierna non lascia però spazio a mezze misure. Grandi e ingombranti ritorni incontrano progetti innovativi lontani dalle dannate dinamiche di algoritmo.
Buon ascolto!
Mahashmashana è un grande campo crematorio. L’opening track, dal titolo omonimo, ne vale già l’ascolto. Con questo nuovo capitolo Josh Tillman, in arte predicativa Father John Misty, si spinge in parallele introspettive e ancor più avveniristiche. La raffinatezza del suono a questo giro è tinta di aperture ancor più lussuriosamente orchestrali e potenti. Alla già nota mescolanza di folk e rock di prima gamma, si aggiungono squarci luminosi, sonici, di un'ambizione che in pezzi come Screamland (con il meraviglioso Alan Sparhawk alla chitarra) trova massima espressione. I toni malinconici si scontrano con un lirismo in qualche modo surreale e produzioni, rispetto ad esempio all’ultimo Chloë and the Next 20th Century, di più ampio respiro ritmico. C’è un po 'di Beck, quello di Sea Change. She Cleans Up richiama le fasi meno cupe e macabre, ma pur sempre eccentriche, di Tom Waits. Il disco non fa altro che tradurre le voglie evolutive di Father John Misty all’interno di un genere molto statico e che giova di artisti visionari come l’ex batterista dei Fleet Foxes.
Questo duo svedese fa musica con i controcazzi! L’avanguardia incontra ritmi spezzati, un digitale distorto, un pò di drone-ambient adatta allo studio, un’oscurità adatta ai più, l’industrial di Reznor. Non fatevi ingannare dalla categorizzazione del genere techno, qua siamo ben oltre o meglio, non solo, nelle piste da ballo o in un bosco agghindato. Siamo in uno spazio di sfida alla convenzione che in questo campo non si possa ricercare un suono identitario, identificabile. La caccia al groove porta con sé uno sperimentare assorto, musicalmente asettico, inquietante, teso. Rrose, Ancient Methods, questa corrente. L’idea di decostruire il dancefloor, il suo concetto, o entrambi. Caos e astrattiva. Stupendo. Stupendi.
Egisto Macchi è in spiaggia. Come prendere il classico, quel moloch mitologico inscalfibile all’orecchio, e tramutarlo in un’odissea fruttata. Che poi è il secondo capitolo di questo viaggio se proprio vogliamo essere precisi. E guardate che non ho citato il maestro a caso.
Jeff Parker, membro fondatore dei Tortoise, ha collaborato tra i vari con Rob Mazurek, Makaya McCraven, Bill Callahan (Smog) e Amando Freitas, senza mai perdere di vista il suo stile unico e, talvolta, camaleontico. Accompagnato dal suo frizzante collettivo “los angelino”, il chitarrista cinquantasettenne costruisce un progetto che si muove tra modern jazz, post-bop e derive quasi funk-sperimentali. Il dinamismo su cui vibra il disco è contenuto ma tutt’altro che prevedibile, mettendo in luce l’ammirabile architettura dell’album. Jeff Parker dimostra ancora una volta di saper fondere il passato e il presente del jazz in circa 80 minuti che sembrano un ponte tra l’era Blue Note e il post-jazz moderno. Bill Frisell, Mingus, qualche accenno a Pharoah Sanders. È un disco che richiama la storia senza temerne il confronto, con echi di Thelonious Monk e persino di Sun Ra, ma che guarda decisamente al futuro del genere. In una parola? Eleganza.
Di nuovo dalle parti dei Tortoise. In bilico tra le note di questo sonico cambio di rotta per Papa M. Tra i fondatori degli Slint, a seguito dello scioglimento della band culto del Louisiana, David Pajo si è distinto per i suoi eterei riffs in formazioni quali Stereolab e, appunto, Tortoise. Nella mia testa lo vedo come un album fratello del bellissimo The Hard Quartet della formazione omonima, uscito 2 mesi fa esatti. Ballads of Harry Houdini è sì in qualche modo un ritorno nudo e crudo alle intimità del folk però allo stesso tempo, come subito percepibile con l’opening track Thank You For Talking To Me (When I Was Fat) e altri pezzi quali People’s Free Food Program o Rainbow of Gloom, non disdegna segmenti distorti e molto più vicini a chiassose istantanee della storia del genere. La mano è inconfondibile, in bilico tra un meraviglioso minimalismo e ispirate sezioni di giostra. Da qualche parte soddisferà amanti dei vari Mark Kozelek e Will Oldham ma lasciate perdere se non avete intenzione di farvi stupire. Stupire, come il titolo stesso, nonché omaggio al celebre illusionista, che suggerisce la tendenza al desiderio di scoprire le verità nascoste dietro il velo dell’inganno, narrativa riflessa nel tono enigmatico della composizione.
Una bomba unica che atterra di giustezza in questo panorama caotico. Qua veramente un connubio divertente, al free jazz si uniscono il grindcore, l’industrial, un tappeto noise. D’altronde stiamo parlando del nuovo progetto di personaggini quali John Zorn e Bill Laswell. Una cacofonia selvaggia che forse appagherà più i fan del metal del giovedì piuttosto che del jazz club del mercoledì. Zorn, Laswell e Mick Harris dipingono un incubo sonoro che riporta alle sperimentazioni dei Naked City, rimuovendone forse la nota amarognola e aggiungendone intensità abrasiva e atmosfere claustrofobiche. Questa energia non sarebbe raggiungibile non fosse per la maestria tecnica degli interpreti che non lasciano spazio a giri di parole e tintinnii.
Quinto LP per Felix Manuel (aka DjRUM). Al primo ascolto mi sono segnato: “Aphex Twin incontra Edgar Froese e pensa a Floating Points”. Dopo qualche riproduzione mi permetto di arricchire come anche un tocco di Burial sia altrettanto percepibile e che le confessate influenze di Alice Coltrane e Keith Jarrett stiano prendendo sempre più piede nella fragorosa evoluzione stilistica del giovine attualmente di sede londinese. L’abilità nel mescolare palesi influenze jazz ad una sorta di dubstep misto ambient (forse un ambient un pò “spinto”) è davvero sorprendente. DjRUM è sicuramente uno da cui aspettarsi sempre un apporto innovativo ai paesaggi stilistici che accarezzano il genere tutto. La sua capacità di integrare elementi acustici ed elettronici con un perfetto equilibrio tra groove e introspezione lo rende uno degli artisti più affascinanti della scena elettronica contemporanea. Le linee di basso sono cavernose, i beat ipnotici, e l’utilizzo frammentato e distorto di intermezzi vocali sembrano eco di un futuro distopico. Un progetto che, come l'impronunciabile duo svedese sopra listato, spinge ulteriormente i confini della club music verso territori inesplorati.
Probabilmente l’elefante nella stanza della selezione odierna. Arpeggi e un pattern sonoro ormai diventati specialità della casa. Qualcuno deve aver detto a Bill Withers di ascoltare i Radiohead e, per rimanere in tema, Father John Misty. Ciò che mi colpisce di Small Changes è l’ulteriore evoluzione in termini di orizzonti sonori e sfumature del musicista britannico di origini ugandesi. Chiaramente Townes Van Zandt e Gil Scott-Heron sono sempre dietro l’angolo, ma la delicatezza e questo approccio moderno richiamano tanto il già citato Bill Withers quanto meteore odierne come Dijon. Un disco che si svela lentamente, un dialogo tra amici di vecchia data. Kiwanuka riflette sul tema del cambiamento, sull’intimità di questo processo identitario.Small Changes è un album che consacra la maturità di un artista capace di fondere tradizione e freschezza in modo naturale e coinvolgente.
E fu così che arrivarono motori, voci, bicchieri rotti, un brindisi per un discorso mai avviato, un balbettio unico. Questo non è altro che un meraviglioso disco di atmosfera. Un album che cerca di riempire gli spazi vuoti
Ma come si riempie uno spazio vuoto? Opterei per una di quelle mappe sulle quali segnare i luoghi dove si è stati con le puntine. Colorate, le puntine. Economica ed efficace, la mappa. Una mappa di layers sonori, tondi e avvolgenti. Un laboratorio sonoro che dà sfogo ad imprevedibilità di astratta e tenue elettronica, di minimale jazz d’avanguardia, di ambient. I momenti di caos controllato, con fiati e sintetizzatori che sembrano dialogare senza mai raggiungere una conclusione, si alternano a pause di struggente silenzio.
Ma come si riempie uno spazio vuoto? Trellis non dà risposte. Piuttosto solleva quesiti sul nostro rapporto con lo spazio, il suono, i silenzi.
di Kim Deal
Uscita: 22/11/2024 |
Genere: Alternative Rock/Psychedelic Indie Rock/Folk
Sapere che Kim Deal avrebbe fatto un disco solista è stato come scoprire che la zia d’America, sempre ammirata per indole alcolica e visionaria, sarebbe venuta a casa per Natale. Dire che ha segnato adolescenze, tra le varie la mia, è riduttivo. L’apporto a Pixies e Breeders è il guanto di feltro che ravvivava le 7 del mattino in treno, l’attesa delle verifiche di matematica, il ritorno spavaldo a casa per pranzo. Un disco agrodolce. A tratti soave, pronto a coccolarti a suon di fiati e zuccheroso indie rock, a tratti graffiante, con tracce quali Crystal Breath e Big Ben Beat, quasi a testimoniarne l’indole acida della sottoveste. Sicuramente intimo, Nobody Loves You More, mescola riff spogli, la solita voce meravigliosamente sgranata, ad un garage indulgente, a tratti di malinconica ironia. Soffici ballate trovano vera rivelazione nell’alternarsi con scazzate confessioni. Ci ho sentito Karen Dalton. E forse ho detto tutto. La mattina di natale voglio svegliarmi con del cioccolato fondente e Summerland di sottofondo. Grazie zia Kim.
di Tashi Dorji
Uscita: 22/11/2024 |
Genere: Experimental
Un pò di Ry Cooder, tanto del mio amato Bill Orcutt (con il quale lo stesso autore ha pure collaborato), della splendida Alessandra Novaga, del monumentale Richard Dawson. Sedetevi attorno al fuoco ma non accontentatevi delle storielle crepuscolari. Lasciate che sia lui stesso ad accendersi dentro di voi. Un incastro di loop e scordature in cui perdersi. Idealmente torna pure John Zorn qua. Accesa è l’indole all’esperimento. we will be wherever the fires are litdel talentuoso chitarrista bhutanese Tashi Dorji è un appello alla pazienza, alla ricerca del suono, al meravigliarsi di fronte alla fiamma che, per chi ancora ne ostenta, arde.
Come concludere se non con l’artista che, parlando di astri, ha spesso condiviso le uscite con il signore il cui album ha aperto questo giro di OltreFrequenze. Facendo il sofisticato, questo mi è parso un pò lo Skeleton Tree del predestinato di Compton. Un disco meravigliosamente asciutto, a mio avviso nettamente superiore agli ultimi due DAMN. e Mr. Morale & The Big Steppers. K Dot è il migliore della sua generazione e non smette mai di dimostrarlo. Un’opera eclettica, polemica, una stratificata riflessione sul perdersi per poi riscoprirsi, sul concetto di potere. Con un mix di produzioni che tocca sia l’hip-hop più tradizionale del suo capolavoro To Pimp a Butterfly che frammenti energetici e pseudo R&B, grazie al meraviglioso apporto di SZA, ci troviamo di fronte ad un viaggio sentito nelle pieghe dell’alienazione urbana. Un disco manifesto.