Dal 26 luglio la rubrica “Il diario della crisi” del sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ospita un testo di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari che, per l’importanza degli autori e per la diffusione del documento stesso, merita una dettagliata analisi.
La tesi di fondo è che il decreto green pass sia una misura discriminatoria.
Partiamo da un aspetto apparentemente marginale: scorrendo il testo di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari troviamo che tra i pochissimi dati espressi in termini numerici che vengono portati a supporto delle loro argomentazioni, quello che dovrebbe essere il più importante NON è un dato scientifico.
Riportare, infatti, che “in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose” ha significatività pressoché nulla, perché non vengono indicate le consistenze di partenza delle due popolazioni (cioè quanti erano in totale i cittadini che avevano ricevuto la doppia dose e quanti quella che non l’avevano ricevuta).
Per intenderci: se, paradossalmente, i britannici senza la doppia dose fossero stati solo 67, dire che 50 dei 117 nuovi decessi sono stati tra i completamente vaccinati significherebbe che tutti coloro che non hanno ricevuto la doppia dose sono morti in seguito, mentre gli altri, i vaccinati, si sono salvati quasi tutti, tutti tranne cinquanta. Non è ovviamente questo il caso, ma questo paradosso spiega bene che l’omissione del dato da inserire al denominatore rivela o una carenza di logica statistica, che sarebbe già gravissima per due filosofi, oppure, ancora peggio, una deprecabile forzatura argomentativa, perché se è innegabile, come viene scritto, che “il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi”, omettere il dato sulle consistenza delle popolazioni (che dimostra inevitabilmente la minore incidenza dei contagi tra i vaccinati) aiuta gli autori a nascondere il fatto che, in realtà, il vaccinato si ammala sì, e si contagia pure, ma MENO. Anzi MOLTO MENO. Inoltre, e anche questo viene omesso dagli autori, qualora il vaccinato si ammalasse, soffrirebbe molto spesso, rispetto al proprio gemello non vaccinato, di una sintomatologia più blanda.
Tutto questo non ci stupisce: quando si vogliono sostenere posizioni estreme, ci si appoggia facilmente a omissioni statistiche e forzature logico-argomentative, ma già questo primo segnale getta una luce sinistra sulla consistenza dell’impianto dell’intero testo.
Ma procediamo ordinatamente e analizziamo il cuore dell’intervento di A&C che consiste nell’evocare la natura discriminatoria del decreto “green pass”.
Stavo per scrivere che i due puntano a “dimostrare la natura discriminatoria” del decreto, ma, se questo era forse nelle intenzioni degli autori, non è ciò che risulta dal testo. Perché ben pochi elementi fattuali vengono portati a supporto della loro tesi. Non di “dimostrazione” si tratta, quindi, quanto di una evocazione, quasi emozionale più che argomentativa, della natura discriminatoria del decreto green pass, a cui gli autori appongono nel finale la conseguente sollecitazione a una reazione politica.
Buona parte del breve testo (di sole 440 parole) invece di dimostraci in cosa consisterebbe esattamente il carattere discriminatorio della misura, viene invece impiegata a ricordarci, per dirla breve, che la discriminazione è sempre una brutta cosa, tipica di “ogni regime dispotico”, “un bisogno (…) antico come la società”. Ben poche parole invece sono spese per dimostrarci che QUESTO decreto green pass metta davvero in atto una discriminazione.
Alla fine della fiera, il testo non è efficace né a dimostrare che ogni discriminazione è brutta, né soprattutto che questo del green pass si tratti effettivamente di un caso di discriminazione.
Partiamo dal primo aspetto: cosa significa discriminazione? Analizzare in dettaglio il concetto di discriminazione è fuori dall’ambito di questo testo: un buon riepilogo, con tutti i riferimenti normativi, a partire dall’art. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo si può trovare in questo articolo dell’Ordine degli avvocati di Torino.
Con una buona approssimazione possiamo dire che una discriminazione è una disparità di trattamento illegittima, ingiustificata.
I casi più tipici, paradigmatici, e infatti normati, sono quelli relativi all’etnia, alla nazionalità, al genere, all’orientamento sessuale, all’orientamento religioso, alla disabilità e all’età.
Ma non tutti questi gruppi sono uguali. E se una disparità di trattamento in base all’etnia o all’orientamento sessuale ci appare praticamente sempre illegittima, ingiustificata, persino odiosa, quando non criminale, un diverso trattamento, ad esempio, in base all’età, può essere ben giustificato da motivazioni valide, come dei criteri di tutela di una categoria considerata più debole, vedi le norme che disciplinano il cosiddetto lavoro minorile (legge 17 ottobre 1967, n. 977; d.P.R. 20 aprile 1994, n. 365; legge n. 296/2006). La categoria dei giovanissimi, che da un punto di vista puramente formale potrebbe essere considerata discriminata (un dodicenne è privato della libertà di lavorare) viene di fatto tutelata dalle norme che impediscono ai ragazzini di lavorare. Non serve nemmeno spiegare il perché, tanto è ovvio.
Un po’ più complesso è il caso, sempre relativo all’età, delle norme che disciplinano l’età minima per l’elettorato passivo e attivo alla Camera e al Senato. Un tredicenne non vota: questo non è prevsto nemmeno dalle proposte di legge più rivoluzionarie in materia. Si tratta di una discriminazione? Non credo. Queste norme potranno essere considerate come non tarate alla perfezione, magari qualcuno può legittimamente pensare di portare il limite per l'elettorato attivo a 16 anni, ma difficilmente potrebbero essere considerate norme discriminatorie. Però mettono in atto un meccanismo diverso, rispetto alle leggi contro il lavoro infantile: in questo caso, non puntano a tutelare una categoria considerata debole, i giovanissimi, bensì a tutelare un principio superiore, quello relativo all’efficienza e alla legittimità degli organi elettivi. In questo caso non sono i giovanissimi ad essere tutelati come “categoria a rischio”, ma questi sono implicitamente considerati, al contrario, come una categoria in grado di mettere a rischio la qualità delle istituzioni.
Si potrebbero poi fare altri esempi, ma quello che ci preme è sottolineare che non ogni disparità di trattamento è una discriminazione. Lo è solo se è ingiustificata e illegittima.
Nel caso del green pass si può facilmente ipotizzare che alla base del provvedimento ci siano criteri di tutela di una categoria considerata a rischio, ovvero tutti i cittadini che possono ammalarsi di Covid-19. E chi sarebbe a metterla più a rischio? In particolare i cittadini non vaccinati. Questo almeno nella mente del legislatore.
Se io sono vaccinato e vado a teatro, il mio rischio di contagiarmi è molto inferiore se tutti gli altri spettatori hanno il green pass. Le mie probabilità di infettarmi quella sera scendono a zero? Niente affatto, ma ho già abbattuto significativamente queste probabilità vaccinandomi e, se tutti hanno un green pass valido, le probabilità diminuiscono ancora. Tutta la letteratura scientifica lo conferma.
È una discriminazione non fare entrare a teatro chi non ha il green pass? Lo sarebbe se il divieto fosse ingiustificato, ad esempio basato su orientamento sessuale, etnia. O su calcoli deliranti. Qui la ratio è salvaguardare la salute di chi entra.
Ma Agamben e Cacciari lo ritengono discriminatorio. Quindi a loro spetta dimostrare che la restrizione sia illegittima o ingiustificata.
Diventa quindi determinante stabilire se in questo caso del green pass il trattamento differenziato a cui sono sottoposte le persone non vaccinate sia immotivato, illegittimo, inopportuno, sproporzionato, magari per l'eccessiva estensione nel tempo o negli ambiti di applicazione (troppi i luoghi per cui è necessario il green pass, troppo lungo il tempo di validità del provvedimento, ecc.).
E quali ragioni ci vengono addotte da A&C per dimostrare che questo sia il caso?
Come primo argomento vengono menzionate misure adottate in Cina (forse, in futuro) e in Unione Sovietica (nientepopodimeno). Tutte misure che nessun sincero democratico stenterebbe ad ammettere come rispettivamente sproporzionate (perché troppo prolungate nel tempo) e inopportune.
Ma che cosa aggiungono queste citazioni emozionali se l’obiettivo è quello di fornire una equilibrata valutazione del decreto sul green pass? Poco o nulla.
La seconda pezza d’appoggio alla natura discriminatoria del green pass verrebbe dalla dichiarazione di un esponente politico (ma chi?) che si rivolgersi “a chi non si vaccina usando un gergo fascista come” “li purgheremo con il green pass”. Beh ogni buona causa dispone di almeno un supporter inadeguato. Anche i detrattori del green pass hanno avuto fautori che hanno citato le stelle di David usate nei campi di concentramento. Altrove si fa cenno alla “propaganda di regime”. Ma, anche se questo fosse vero, si tratterebbe comunque di aberrazioni comunicative, deprecabili, ma non sufficienti a dimostrare la discriminatorietà della misura.
La terza pezza d’appoggio, poi, cade miseramente di fronte all’omissione di alcuni fattori numerici fondamentali, quelli a cui facevamo riferimento all’inizio del documento.
Ribadiamo: nella storia dell’umanità abbiamo assistito a trattamenti differenziali nei confronti di individui e gruppi. Alcune di queste per carenza di motivazione, legittimità, proporzione, opportunità sono state vere e proprie discriminazioni, le peggiori delle quali decisamente criminali. Altri sono stati trattamenti adeguati, motivati, proporzionati nel tempo e nei contesti, tali da ritenersi accettabili, legittimi, giustificati.
In alcuni momenti è stato persino imposto ad alcuni cittadini di andare al fronte e mettere a rischio la propria vita perché, secondo la valutazione delle istituzioni, le sorti della nazione erano a rischio: sono state misure discriminatorie, magari nei confronti dei cittadini maschi giovani visto che donne, giovanissimi e anziani erano esclusi dalla leva?
In democrazia è sempre un problema imporre divieti e obblighi, ma storicamente è accaduto decine di volte. L’eventuale discriminatorietà delle misure, non va solo evocata e deprecata. Va dimostrata.