C’era grande attesa per il terzo DPB del governo Meloni in ragione del fatto che per la prima volta da quando il governo si è insediato la manovra finanziaria deve essere inquadrata all’interno delle nuove regole europee ed in ragione delle ipotesi di aumento delle imposte che si sono rincorse durante l’estate. Il documento alla fine presentato da Giorgetti, eccezionalmente entro i tempi prestabiliti, sostanzialmente delude qualunque attesa.
Il Documento Programmatico si inquadra nel framework dei documenti economici che lo Stato Membro rilascia, di concerto con la Commissione e l’Eurogruppo, con lo scopo di raggiungere un’armonizzazione delle condizioni macroeconomiche del Paese allocando risorse e definendo politiche fiscali per il bilancio dell’anno successivo. Del set di documenti fanno parte, oltre al DPB, il DEF rilasciato in primavera, la NaDef di settembre, il Piano Strutturale di Bilancio (che quest’anno sostituisce la NaDef), la Legge di Bilancio ed il Rendiconto Generale dello Stato.
Il DPB ha lo scopo di anticipare i contenuti della Legge di Bilancio verificandone ex ante la sua congruità e la sua coerenza con gli obiettivi europei.
Per questa ragione il DPB deve indicare quale sarà la politica fiscale che il governo intenda perseguire per raggiungere i suoi obiettivi nel rispetto delle regole di bilancio.
La compagine che forma il governo si era presentata agli elettori con un vasto programma di alleggerimento delle imposte, di allentamento dei vincoli pensionistici, di progressiva ed automatica riduzione delle accise sui carburanti, di erogazione di risorse a favore delle famiglie, per un valore complessivo per l’intera legislatura che nel 2022 avevamo quantificato in poco meno di 200 miliardi.
Con le prime due leggi di bilancio Meloni e Giorgetti erano riusciti a trovare risorse per la riduzione del cuneo fiscale (10,5 miliardi) e per l’estensione dell’Assegno Unico Universale (3 miliardi).
Non hanno invece trovato spazio per riduzione generale delle imposte attraverso l’alleggerimento delle aliquote Irpef, cancellazione o riduzione di accise, superamento (tanto declamato quanto rimandato) delle norme in materia pensionistica.
Giorgetti, al di là della retorica aggressiva contro stampa ed opposizioni usata durante la presentazione, ha dovuto giocare di rimessa soprattutto con i suoi colleghi di governo, contrari ad ogni ipotesi di reperimento delle risorse attraverso tassazione o attraverso riduzione della spesa. Ne è nato un balletto di ipotesi, smentite quasi in tempo reale, di aumento delle accise sul gasolio, di tassazione degli extraprofitti del settore bancario, di tagli puntuali della spesa dei ministeri. In definitiva quello che il MEF è riuscito a dare agli appetiti ed alle promesse di Giorgia Meloni è stato solo confermare il taglio del cuneo fiscale e la parziale decontribuzione per le imprese che assumono.
In realtà molto poco, soprattutto annunci. Non riuscendo a mettere in piedi un quadro di politiche fiscali per l’ostruzione delle componenti di governo, Giorgetti ha rimandato alle Camere dove verrà presentato, ed emendato, il Disegno di Legge di Bilancio. Sarà durante le discussioni nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato che la manovra prenderà forma.
Nel dettaglio il DPB contiene poche misure.
Dopo una lunga trattativa con l’ABI Giorgetti è riuscito ad ottenere l’anticipazione delle Imposte Differite Attive, che un decreto del 2010, in piena e pesante crisi di sistema, aveva trasformato in crediti d’imposta a compensazione delle perdite attese negli esercizi futuri per i crediti deteriorati. Attraverso questa misura le banche anticiperanno il versamento delle imposte nel 2025 e nel 2026, per poi riottenere i crediti a partire dal 2027. Si tratta, come è evidente, non di una misura strutturale, bensì di una forma di prestito forzoso imposto, o per meglio dire concordato, con gli istituti di credito. Questo maggior versamento, calcolato in 3,5 miliardi per il biennio in corso, sarà poi restituito alle banche titolari del credito. Data la natura dell’operazione, a meno di ulteriore decisione politica nella legge di bilancio 2026, siamo in presenza di un versamento una tantum nelle casse pubbliche a copertura di spese ricorrenti.
Non è esclusa, al momento, la possibilità che Banche ed assicurazioni possano traslare queste imposte temporanee sui costi per servizi imposti alla clientela.
Come detto qui, non c’è nessuna riforma ma solo la conferma di quanto già determinato con la legge di bilancio dello scorso anno. Sulla ridefinizione delle aliquote con riduzione da tre a due, e con riduzione dell’imposta di 2 punti per il secondo e il terzo scaglione, non c’è spazio in bilancio. Il governo, nonostante le entrate fiscali vadano complessivamente bene (+6,1% aggregato), non è nelle condizioni di ridurre il carico fiscale sul ceto medio, come invece promesso più volte.
L’eventuale maggior gettito derivante dal concordato, sarà destinato, qualora ci siano le condizioni, alla riduzione della sola seconda aliquota. Tuttavia, anche in questo caso dobbiamo esser scettici giacché si andrebbe a coprire una riduzione di imposte strutturale mediante coperture una tantum.
Vengono confermate le ZES e la riduzione al 5% delle imposte sui premi di produttività
Viene istituita la “Carta per i nuovi nati” (ex bonus bebè) del valore di 1000 euro per le famiglie con ISEE inferiore a 40.000 euro e confermata l’esclusione dal calcolo dell’ISEE dell’Assegno Unico Universale. Troppo poco, e quindi inutile, per dare impulso alla natalità.
Su questo punto occorre prendere coscienza che non saranno pochi e mal distribuiti bonus ad invertire il trend demografico che vede la popolazione residente in Italia calare del 10% in poco più di un ventennio, secondo le stime Istat.
Non avendo mai affrontato in modo serio e programmato il contenimento della spesa, Giorgetti è dovuto ricorrere ad una riduzione del 5% delle dotazioni ai ministeri. Già l’anno scorso era ricorso ad un taglio lineare del 3,5% a valere sulle spese discrezionali. In assenza di maggiori dettagli, non presenti neanche nelle 38 pagine del documento, dobbiamo presumere che anche quest’anno i tagli colpiranno orizzontalmente le spese discrezionali. Considerando come la spesa pubblica abbia raggiunto la cifra di 1.215 miliardi e quella primaria netta (rilevante ai fini del rispetto del Patto di stabilità) i 1.014 miliardi, appare stridente con la realtà la mancanza di programmazione di una vera, seria e rigorosa revisione della spesa. Poiché il Piano strutturale di bilancio prevede che la sostenibilità del debito nei prossimi 7 anni passerà attraverso la realizzazione di avanzi primari dell’ordine dei 14-15 miliardi l’anno, questo rimandare una riforma necessaria da decenni non prefigura nulla di buono. Il governo conta di uscire nel 2027 dalla procedura d’infrazione per disavanzo ma, per ora, sembra poco più di un desiderio.
Di sostanziale in questo DPB c’è poco altro. Come già detto, è un documento privo di visione, senza riforme, e che mira da una parte a mantenere il poco esistente, e dall’altra a scaricare sugli esercizi successivi il peso dei conti. L’inasprimento delle accise sui carburanti, e forse anche su altri beni, vedi le sigarette, potrebbe arrivare attraverso un emendamento dello stesso governo in sede di commissione; esperimento già visto quando nel 2022 cancellò lo sconto deciso dal governo Draghi.
In altri termini, al momento la legge di bilancio è ancora tutta da costruire e questo DPB non va oltre i proclami delle intenzioni.
Si potrà sempre dire che meglio il quasi nulla che si è fatto che le baldanzose ed irrealistiche promesse elettorali, ma quando il Paese è appena sopra la linea di galleggiamento basta poco (uno shock internazionale ad esempio) affinché affoghi.