La riforma costituzionale in questione è il risultato di decenni di dibattiti tra i giuristi italiani, le cui radici affondano addirittura a prima della Repubblica e della nostra Costituzione: riguarda in particolar modo il nostro sistema processuale penale, le cui innumerevoli modifiche nei decenni scorsi non hanno tuttavia soddisfatto l’intento di risolvere questo contrasto. Nonostante la questione sia considerata di vitale importanza dai professionisti del settore, ci si è storicamente ritrovati davanti ad un grave paradosso: questa grande attenzione al sistema giudiziario non trova riscontro tra i cittadini, che nella maggior parte dei casi ne ignorano persino le fondamenta; far conoscere ai consociati quali siano le strutture e gli organi basilari del nostro sistema penale è necessario tanto quanto che si sappia cos’è un Parlamento o il Presidente della Repubblica. Il diritto penale non è da considerare infatti come un’entità astratta, lontana ed a tratti cinematografica, quanto invece di stretta pertinenza con la vita quotidiana, proprio perché qualsiasi cittadino può potenzialmente un giorno ritrovarsi nell’ufficio di un Pubblico Ministero, anche solo in qualità di sospettato.
La prima parte di questo articolo verrà dedicata a spiegare la differenza tra Pubblico Ministero - o PM - e Giudice, i veri protagonisti di questa riforma. Il PM è - o meglio dovrebbe essere - colui che, dopo aver accolto un capo d’imputazione, si adopera nell’indagine, avvalendosi delle forze pubbliche, per individuare un soggetto che sarà poi l’imputato di un processo. Il Giudice invece è (o dovrebbe essere) - nelle sue varie declinazioni di GIP, GUP o giudice dell’udienza - colui che vigila sui diritti delle parti e ne permette il dibattimento, al fine di giungere alla certezza oltre ogni ragionevole dubbio della vicenda: è quindi il Giudice - e non il PM - l’organo che emette la sentenza di assoluzione o di condanna. Si tratta perciò di due soggetti molto diversi, sia per attitudini che per funzioni: l’uno che è parziale ed assolve la funzione repressiva del diritto, l’altro che è imparziale e indossa la veste di garante per tutte le parti in gioco. In un’ottica calcistica, il Giudice sarebbe dunque l’arbitro che dirige la partita tra il PM e l’imputato, quest’ultimo rappresentato dal proprio avvocato: sarebbe perciò auspicabile che il direttore di gara si mantenga in una posizione più imparziale possibile e che si limiti al corretto svolgimento della sfida.
Questa è la configurazione che dovrebbe essere pretesa; tuttavia, per varie ragioni che risalgono al fascismo inquisitorio, ciò non accade. La nostra Costituzione ha, per moltissimi versi, annientato i profili dittatoriali del Ventennio precedente, al punto che è nata dal compromesso tra le varie fazioni politiche: il termine compromesso richiama al concetto di dialogo, cioè una risoluzione pacifica - e quindi assolutamente non violenta - di uno scontro; è perciò quasi naturale affermare che la nostra Costituzione sia nata dal rifiuto e dalle ceneri degli estremismi da ambo i lati, che si caratterizzano per l’accantonamento del dialogo in favore della prevaricazione. Di converso sono rimaste nella nostra Carta alcune briciole di questo atteggiamento inquisitorio, una delle quali si identifica appunto con la concezione di magistrato: si è, infatti, sopra affermato che esistono due tipologie molto differenti di magistrato (PM e Giudice). Eppure, la Costituzione ne sottolinea la distinzione all’art. 107, ma soltanto dal punto di vista delle mere funzioni: I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Corretto per carità ma non sufficiente, in quanto la divergenza è soprattutto legata al rapporto, anche mediatico, coi cittadini: il PM alla ricerca di coloro che hanno infranto la legge penale, il Giudice ad operare da controbilanciamento allo strapotere del PM. Qui sorge tuttavia il problema: nel momento in cui l’ordinamento giuridico non preveda modalità volte ad assicurare l’indipendenza del Giudice dal PM, il primo sarà necessariamente influenzato dal secondo, in quanto molto più dominante una posizione di accusa (soprattutto se pubblica, come in questo caso) rispetto ad una di equilibrio. Se un soggetto per natura propria tendesse a prevaricare, diverrebbe necessario porne a priori dei freni: il rischio è che l’operato del PM si trasmetta a quello del Giudice senza che quest’ultimo lo possa consapevolmente ponderare mediante le contro-argomentazioni dell’imputato.
In origine, questa commistione era ancora più accentuata: il Codice Rocco (il codice di procedura penale realizzato durante il Ventennio) prevedeva che le indagini iniziali non venissero fatte da un organo di accusa, bensì da un Giudice, il cosiddetto Giudice istruttore; il PM faceva poi la propria comparizione in udienza. Questa configurazione individuava dunque un Giudice alla ricerca di fatti, documenti e testimonianze al fine di condannare un determinato soggetto, quando invece quest’organo dovrebbe essere imparziale: un sistema del genere era, quindi, chiaramente in linea con un ordinamento molto sensibile alla sicurezza nazionale, anche a discapito dei diritti del singolo.
Il problema è che, da questo punto di vista, la configurazione non ha subìto mutamenti nel 1948, attraverso l’entrata in vigore della Costituzione; i processi penali molto spesso seguivano un iter per cui il Giudice ed il PM erano già d’accordo nella sequenza dei fatti ricostruita in sede istruttoria, rendendo di conseguenza superflua la fase di dibattimento in aula (unico momento in cui l’imputato può far valere i propri diritti). La situazione non è mutata fino al 1988, anno in cui invece è stato portato a termine un lungo cammino per l’elaborazione del Codice Pisapia-Vassalli, ovvero il nuovo codice di procedura penale, molto più idoneo ad un sistema liberale. Si è rimosso il concetto di Giudice istruttore, Giudice quindi relegato - o meglio eletto - al ruolo di garante; la funzione dell’accusa è stata invece interamente demandata al PM.
Tuttavia, il processo non è nella sostanza variato nelle modalità. Ci si deve dunque chiedere come mai non sia cambiata la realtà processuale a fronte di una riforma tanto importante: la risposta sta nel fatto che si sia intervenuti solo sul piano della legge ordinaria senza considerare la fonte, ovvero la Costituzione. La prima a tacere in merito ai diritti dell’imputato era proprio quest’ultima, che non affermava la centralità delle udienze e del confronto tra le parti, così come non rivendicava la terzietà del Giudice. A ciò si è rimediato una decina di anni dopo, quando nel ‘99 è stato rettificato l’articolo 111 della Carta, per cui, oggi, tra le varie modifiche, compare: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Anche a seguito di questo intervento, tuttavia, il Giudice non riesce ancora a ricoprire una posizione imparziale: non si è ancora giunti alla fonte del problema.
Per sciogliere questo nodo apparentemente irrisolvibile, si deve riflettere su ciò che la Costituzione ha posto come principio fondante: quando si pensa alla nostra Carta fondamentale - ed a maggior ragione al diritto in generale - non bisogna dimenticarsi come sia stata realizzata da una società, caratterizzata da ben precisi ideali e soprattutto con relative consuetudini che si convertono in diritto tanto quanto le delibere ragionate, con la differenza fondamentale che mentre le seconde affrontano un vaglio di razionalità - attraverso il dialogo - le prime invece non lo percorrono, proprio perché la loro correttezza è data per scontata dalla generalità dei consociati: è giusto perché si è sempre fatto così. Il tema delle carriere unificate dei magistrati appartiene a questo sottoinsieme: prima ancora che dalla legge e dalla Costituzione, la mancata separazione delle carriere deriva dall’abitudine di innumerevoli generazioni di magistrati e giuristi a concepire il Giudice e PM come veri e propri colleghi. È necessario perciò intervenire a livello normativo in modo da costringere i magistrati - ed in particolar modo la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale - a calibrare il rapporto tra i due organi in maniera differente.
A dir la verità, prima di quest’ultima riforma, sono stati compiuti dei tentativi più mirati, che non sarebbe assurdo definire con un’analisi più approfondita come fuorvianti. In primo luogo il referendum abrogativo, in merito al quale il popolo italiano ha votato il 12 giugno 2022 assieme ad altri quattro capi, sulla separazione delle funzioni. È vitale per il discorso sottolineare il termine funzioni, giacché questo non coincide assolutamente con il termine carriere. Il sottoscritto ricorda come al tempo la grande maggioranza - se non la totalità - dei giornali più conosciuti parlasse - in riferimento al capo del referendum - di separazione delle carriere: niente di più sbagliato! Con separazione delle funzioni si intende il fatto che il giurista - che sia neolaureato in Giurisprudenza o professore di diritto od avvocato - che voglia affrontare il concorso di magistratura, debba decidere sin da subito se intraprendere la professione di PM o di Giudice, senza possibilità di cambiare tale scelta negli anni seguenti. Con separazione delle carriere,invece, si intende prevedere meccanismi per cui i PM non possano incidere sull’operato dei Giudici, e viceversa: ossia la realizzazione di organi diversi che decidano in merito alle promozioni, alle sanzioni disciplinari ed ai trasferimenti; la Costituzione prevede come responsabile di questi compiti/poteri il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura).
Lasciando a dopo il discorso sul CSM, si deve rilevare come la separazione delle funzioni, per quanto apprezzabile nelle intenzioni, sia piuttosto inutile ed il giudizio è avvalorato dal fatto che nella realtà i passaggi da una funzione all’altra siano relativamente pochi e non incisivi. Un sistema che preveda la separazione delle carriere sarebbe più che accettabile, a prescindere dal divieto di cambiare la funzione: non si può dire altrettanto del contrario. In ogni caso, l’affluenza - in occasione del referendum - non è stata minimamente vicina al 50% che richiesto per la validità del medesimo. Dopo poco tempo è intervenuta la riforma Cartabia, che ha ridotto a massimo una volta nella carriera di magistrato la possibilità del cambio di funzione (ex art.12 L.71/2022): su questo intervento normativo si possono replicare le considerazioni fatte in precedenza.
La riforma attuale, invece, si caratterizza per una grande incisività: in primo luogo agisce sulla Costituzione, senza limitarsi al piano della legge ordinaria; in secondo luogo, mira alla vera e propria separazione delle carriere, in quanto mirata all’istituzione di un secondo CSM, così da realizzare due organi apicali indipendenti sia dal potere esecutivo sia dall’altra funzione giurisdizionale: quindi un CSM per i Giudici ed un altro per i PM. Per concludere, occorre sottolineare come sia i promotori di questa riforma, sia chi scrive, siano consapevoli che la riforma da sola non basti, in quanto per cambiare una mentalità così tanto radicata nel sistema, è necessario molto tempo: proprio per questo motivo, diviene evidente come questa modifica sia urgente da decenni, così da mettere fine il prima possibile alla stortura della magistratura italiana. Insomma, meglio tardi che mai.