Perché dovremmo tutti possedere un minimo di “conoscenza finanziaria”, quella che è oggi comunemente chiamata “alfabetizzazione finanziaria” (la quale comprende peraltro anche qualche nozione di economia)? Perché è accertato che ignorare il meccanismo dei tassi d’interesse o gli effetti dell’inflazione sulla capacità di spesa o ancora il valore della diversificazione nell’impiego del proprio risparmio aumenta il rischio di scelte sbagliate e poco lungimiranti e di decisioni che in futuro generano rimpianti e rinunce.
Un miracolo di poche basilari nozioni di finanza ed economia? No, si tratta piuttosto di un risultato della conoscenza come “bussola per la vita”, qualcosa che un tempo risiedeva nella saggezza popolare ed era da essa tramandato, come la famosa massima che suggeriva di “non mettere tutte le uova in uno stesso paniere” oppure quella che insegnava il valore del risparmio: “La ricchezza, come un albero, nasce da un seme; quanto prima si pianta, tanto più rapidamente crescerà”.
Se ciò è vero – come un robusto filone di ricerca ha ormai dimostrato – se ne deduce che investire in “alfabetizzazione finanziaria” sarebbe (per parafrasare Mario Draghi) “spesa buona” in grado di dare un buon rendimento sia ai singoli, sia alla società nel suo insieme (so che il termine “alfabetizzazione” fa storcere il naso a molti – a nessuno piace sentirsi dare dell’analfabeta; per questo oggi si tende a usare l’espressione più neutrale “conoscenza finanziaria di base”). Un investimento che, in ogni caso, dovremmo compiere soprattutto noi italiani, giacché il nostro Paese si segnala per occupare una posizione tra le ultime nelle graduatorie internazionali dell’educazione finanziaria. E che sarebbe particolarmente importante proprio per i giovani, le cui decisioni in materia di studio, lavoro e risparmio hanno conseguenze importanti lungo tutto l’arco della vita; e per le donne, posto che i dati ne mostrano una minore dimestichezza anche solo con i concetti basilari della finanza rispetto agli uomini. E’ verosimile, infatti, che la scarsa famigliarità con il mondo della finanza le porti a compiere scelte svantaggiose o a non opporsi a tali scelte quando qualcuno (di solito un uomo) sceglie paternalisticamente per loro, com’è stato in gran parte della storia dell’umanità.
La famigliarità con le nozioni basilari dell’economia e della finanza si acquista in vari modi, dall’istruzione al linguaggio. La prima fornisce i concetti fondamentali che guidano le scelte, ancorandole a corretti principi di prudenza, di lungimiranza, di collegamento tra obiettivi e vincoli; la seconda crea o elimina barriere culturali e psicologiche. Per esempio, una ricerca alla quale ho partecipato con colleghe linguiste dell’Università di Torino e di Amsterdam, dimostra come il linguaggio della finanza, persino per pubblicizzare semplici prodotti di risparmio, adotti metafore tipicamente riconducibili al mondo maschile, come quello militare o mutuato da sport tradizionalmente praticati da uomini, come il calcio. La mancanza di famigliarità indotta dal linguaggio interagisce così negativamente con la scarsa conoscenza di base, moltiplicandone gli effetti negativi. Tutto ciò mentre la vita lavorativa si è fatta più precaria e le trasformazioni nell’ambito della famiglia - con la maggiore probabilità di divorzio, il diffondersi delle coppie di fatto o di vita da single - portano a una diretta responsabilità delle donne rispetto all’obiettivo di sicurezza economica, sia da giovani, sia – e ancor più - da anziane. E senza dimenticare che la loro più elevata longevità le espone a un maggiore rischio di insufficienza di risorse nell’età anziana.
Per quanto riguarda I giovani, la conoscenza finanziaria di base deve essere considerata parte essenziale del bagaglio minimo di competenze utili ad affrontare, con maggiore consapevolezza, le scelte aventi rilevanti ripercussioni sul benessere economico lungo l’intero ciclo di vita, come la scelta tra continuare gli studi ed entrare nel mondo del lavoro; tra consumare e risparmiare oppure, al contrario, indebitarsi; tra acquistare la casa di abitazione oppure affittarla; tra continuare a lavorare oppure scegliere il pensionamento, avendo raggiunto i requisiti minimi (con il rischio di trovarsi, a un’età più elevata, con risorse inadeguate). Tutte scelte complesse per le quali un bagaglio minimo di nozioni economiche e finanziarie - come per esempio la nozione di “capitalizzazione composta” - sono necessarie.
Così come saper leggere, scrivere e fare di conto è apparso, agli inizi del Novecento, elemento essenziale di miglioramento del benessere e di progresso della società nel suo insieme, prescindere oggi dall’alfabetizzazione finanziaria significherebbe rinunciare a uno strumento essenziale (anche se certo non sufficiente) di contrasto alla povertà e di maggiore inclusione sociale, in particolare per i gruppi più vulnerabili. E i giovani rappresentano oggi il segmento più vulnerabile della nostra società.
Ci sono però altre ragioni, che travalicano la finanza personale, per proporre l’alfabetizzazione finanziaria come obiettivo socialmente rilevante. E queste hanno a che fare con decisioni non più individuali bensì collettive, cioè con scelte politiche e, più specificamente ancora, con le riforme economiche, che assumono sempre maggiore importanza nell’azione dei governi. Perché una riforma abbia successo, occorre che la società ne comprenda e ne condivida i fondamenti. In caso contrario, si andrebbe incontro a inevitabili retromarce o bocciature e ad altrettanto inevitabili “costi politici”, ben rappresentati dall’aforisma dell’ex presidente della Commissione europea, Jean Claude Junker: “Sappiamo bene ciò che è necessario fare; non sappiamo però come farci rieleggere una volta che le decisioni siano state prese”.
Che ruolo gioca, quindi, l’educazione finanziaria nel processo riformatore? Se le riforme, pur non perfette, vanno nella giusta direzione anche gli elettori ne capiranno la necessità e saranno quindi meno propensi a “punire” (elettoralmente) i governi riformisti. E’ questo il risultato di una nostra ricerca che mostra come l’educazione finanziaria sia associata a una minora probabilità di perdita di consenso elettorale. Ne consegue che un minimo di educazione finanziaria è indispensabile anche per essere migliori cittadini e per “costringere” i politici a essere migliori decisori (magari anche scegliendoli meglio); un presupposto per una partecipazione politica più consapevole e per una democrazia più solida di quella basata sulle illusioni dei populisti.
Non si tratta però, ovviamente, di una panacea, capace di risolvere tutti i problemi della società ma di un presupposto necessario, insieme a molti altri (tra i quali spicca una informazione corretta e completa ma al tempo stesso alla portata di un pubblico vasto) per una società più inclusiva e dinamica e per con minori diseguaglianze. Una causa adatta ai piccoli passi, e quindi per il tempo lungo, diametralmente opposta all’attuale “presentismo” del “tutto subito”. “L’istruzione è lo strumento più potente per cambiare il mondo” ha detto Nelson Mandela; in essa anche la conoscenza finanziaria di base deve oggi necessariamente avere la sua parte.