Nuove terapie HIV

Dall'inizio della pandemia ad oggi l'approccio terapeutico al virus che ha tristemente caratterizzato gli anni '80 è evoluto e con esso le condizioni dei pazienti.

Foto di Anna Shvets / Pexel*

HIV è una malattia sessualmente trasmissibile. La naturale progressione di HIV in AIDS (immunodeficienza, e quindi infezioni opportunistiche) rendeva questa condizione una sentenza di morte. L’introduzione, nel 1996, di una terapia di combinazione a tre farmaci ha alterato sostanzialmente la naturale progressione di HIV in AIDS, rendendo HIV una condizione cronica. Oggi, una persona con HIV sotto terapia può vivere una vita normale, con un’aspettativa di vita confrontabile a quella della popolazione generale. Negli ultimi anni, la classica terapia di combinazione a tre farmaci ha subito una evoluzione verso la semplificazione, nel tentativo di ridurre il numero di farmaci assunti quotidianamente e aumentare l’aderenza alla terapia. Questo è potuto avvenire grazie all’introduzione di regimi a due farmaci e di farmaci long-acting (a lunga durata d’azione, che consentono di passare da una somministrazione giornaliera della terapia a una somministrazione mensile o bimestrale).

Dall’inizio della pandemia (1981) ad oggi, HIV ha causato globalmente oltre 40 milioni di morti, e 39 milioni di persone vivono oggi nel mondo con HIV. La maggioranza di questi individui vive in Africa subsahariana (Fig 1), ed è proprio in questi Paesi che si verifica la più elevata mortalità per HIV. In Italia, dal 2012 sono state segnalate oltre 30.000 nuove diagnosi di HIV, con un trend in discesa fino al 2020 e un leggero aumento negli ultimi due anni post-COVID-19.

La storia della terapia contro HIV, o terapia antiretrovirale, comincia nel 1987 con l'approvazione di una molecola chiamata AZT (azidotimidina o zidovudina). L’utilizzo di questo farmaco era gravato da problemi di tossicità midollare e, comunque, la capacità di AZT di tenere sotto controllo la replicazione del virus aveva vita breve.

Infatti, AZT da sola portava rapidamente alla selezione di mutanti di HIV resistenti al farmaco. Dall'inizio degli anni ‘90 altri farmaci attivi contro HIV vengono approvati, rendendo possibile una terapia antiretrovirale di combinazione (cART) basata su due molecole, ma anche questo regime era destinato a fallire. La vera svolta nella storia della terapia per HIV arriva nel 1996, con l’approvazione di una terapia di combinazione a tre molecole, basata su AZT, associata a lamivudina e indinavir.
Ancora oggi le principali linee guida per la terapia di HIV raccomandano l’utilizzo in prima linea di un regime a tre farmaci.
L’impiego della cART ha consentito un notevole aumento dell’aspettativa di vita dei soggetti affetti da HIV, che è oramai confrontabile a quella della popolazione generale (Fig 2). Ciò costituisce un grande passo in avanti, considerando che la storia naturale (percorso di una malattia in assenza di terapia) di HIV prevede un’aspettativa di vita dal momento dell’infezione di circa undici anni.

In altri termini, la cART ha reso HIV una condizione cronica, tenendo sotto controllo la replicazione del virus e consentendo un restauro delle funzioni del sistema immunitario. Per tanto, se in terapia, i soggetti che vivono con HIV non progrediscono in AIDS. Inoltre, la terapia antiretrovirale rende il virus non più trasmissibile attraverso rapporti sessuali quando i livelli del virus nel sangue sono stabilmente soppressi. Da questo fatto nasce lo slogan “U=U”, ossia “Undetectable = Untrasmittable” (“Non rilevabile = Non trasmissibile”). L’evidenza che permette di affermare che “U=U” proviene da diversi clinical trial - tra cui PARTNER-1, PARTNER-2 e Opposites Attract - che hanno arruolato coppie sierodiscordanti (coppie in cui un partner è sieronegativo al virus HIV, mentre l’altro è sieropositivo) che avevano rapporti sessuali senza condom. Ebbene, da questi studi non è emerso alcun caso di trasmissione di HIV correlato a rapporti all’interno delle coppie. Chiaramente, perché il virus resti non trasmissibile per via sessuale è necessaria una stretta aderenza alla terapia, e ogni interruzione della terapia vanificherebbe tale condizione.

I principali limiti della cART a tre farmaci erano rappresentati dall’elevato numero di pillole che il soggetto HIV positivo doveva assumere quotidianamente e da una certa tossicità della terapia stessa. Alcune tossicità associate alla terapia antiretrovirale sono rappresentate da aumento dei lipidi nel sangue e alterazioni nella distribuzione del grasso corporeo, anemia, aumentato rischio cardiovascolare, disfunzioni neurologiche e neuropsichiatriche, disfunzione renale e riduzione della densità minerale ossea.
Quanto più è alto il numero di pillole che bisogna assumere quotidianamente, tanto meno il soggetto che le deve assumere sarà aderente a quella terapia, aumentando la probabilità di un suo insuccesso. Nel campo della terapia antiretrovirale, per limitare questo problema, dal 2006 sono state rese disponibili delle singole pillole contenenti al proprio interno più farmaci. In questo modo, riducendo il numero di pillole che la persona deve assumere nell’arco della giornata, a parità di molecole somministrate, aumenta la probabilità di successo della terapia.
Per quanto concerne la tossicità di una terapia a tre farmaci, invece, si è pensato di poterla ridurre tramite l'utilizzo di regimi a due farmaci. Quando tentati negli anni ‘90, però, i regimi a due farmaci avevano fallito. Orbene, ci sono diversi studi che negli ultimi dieci anni hanno dimostrato l’efficacia nel mantenere sotto controllo la replicazione del virus per mezzo di una duplice terapia. Al giorno d’oggi, infatti, non si utilizzano più quelle molecole che impiegate negli anni ‘90 avevano fallito per la selezione di resistenze, poiché si hanno a disposizione molecole più potenti (tecnicamente, a più alta barriera genetica contro le resistenze). Per tanto, una volta che si è raggiunto il controllo della replicazione virale tramite una terapia a tre farmaci, è possibile mantenere tale controllo per mezzo di una terapia a due farmaci, con il vantaggio di ridurre la tossicità a lungo termine della terapia antiretrovirale. Il primo farmaco approvato per una duplice terapia, nel 2017, prende il nome di Juluca, ed è un’associazione di dolutegravir e rilpivirina.
Nonostante la sua efficacia, la cART, a due o tre farmaci, ha comunque il limite di costringere le persone che vivono con HIV ad assumere la terapia quotidianamente. Per superare questo ostacolo, sono stati sviluppati i farmaci antiretrovirali iniettabili a lunga durata d’azione (long-acting). Farmaci long-acting erano già stati impiegati con successo in altri campi della medicina, con l’obiettivo di aumentare l’aderenza alla terapia. Ne sono degli esempi i farmaci long-acting utilizzati nel campo della contraccezione, somministrati attraverso iniezioni, impianti sottocutanei o IUD (Intra Uterine Device). La prima combinazione di farmaci long-acting iniettabili contro HIV, una duplice terapia basata su cabotegravir più rilpivirina, è stata approvata nel 2021. In questo modo, i soggetti HIV positivi che hanno già raggiunto livelli di virus stabilmente soppressi nel sangue possono assumere la terapia attraverso una iniezione intramuscolare da effettuare mensilmente oppure ogni due mesi.
L’esistenza di una terapia efficace contro HIV non deve però mettere in ombra la possibilità di una profilassi, la quale non si limita all’utilizzo del condom. Infatti, dal 2012, esiste per HIV la possibilità di una profilassi farmacologica. La PrEP o profilassi pre-esposizione consiste nell’assumere farmaci attivi contro HIV prima di uno o più rapporti sessuali. Se assunta correttamente, la PrEP riduce significativamente il rischio di contrarre HIV in seguito a un rapporto sessuale. Sicché la PrEP protegge da HIV ma non da altre malattie sessualmente trasmissibili, è comunque importante l'utilizzo del condom per prevenirle. Inoltre, accanto alla PrEP esiste la PEP, cioè la profilassi post-esposizione, la quale deve essere iniziata al più presto possibile dopo l'esposizione all'HIV e non oltre le 72 ore. Ad oggi, purtroppo, non esiste un vaccino contro HIV.

In questo momento, non esiste neanche la possibilità di guarire definitivamente da HIV, poiché la terapia antiretrovirale non è in grado di eradicare completamente il virus dall’organismo umano. Esiste però il “proof of concept” che da HIV si può guarire. Timothy Ray Brown, meglio conosciuto come il "paziente di Berlino", scopre di essere sieropositivo all'HIV nel 1995, e nel 2006 si ammala di leucemia mieloide acuta. Perciò, nel 2007 va incontro a un trapianto di midollo per trattare la leucemia. Tra i sessanta donatori compatibili, i medici ne scelgono uno in particolare, in quanto portatore di una rara mutazione, chiamata CCR5-Δ32, che impedisce all’HIV di penetrare all’interno delle cellule, conferendo quindi una resistenza innata all’HIV. In seguito al trapianto, il “paziente di Berlino”, nonostante avesse smesso di assumere la terapia, è rimasto sieronegativo sino alla sua morte, avvenuta nel 2020 per una recrudescenza della leucemia. Dopo il caso di Timothy Ray Brown, un secondo individuo, conosciuto come il "paziente di Londra”, è guarito da HIV con modalità analoghe. Ad oggi, sono sei le persone che sono guarite da HIV, e tutte - tranne l’ultima, chiamata “paziente di Ginevra” - hanno subito un trapianto di midollo da donatore portatore della mutazione CCR5-Δ32 per curare un tumore del sangue. Però, una procedura del genere resta non proponibile su larga scala, per via della sua invasività e dei seri effetti avversi associati. 

A questo punto, vale la pena sottolineare che, nonostante i successi della terapia contro HIV, rimangono ancora aperte alcune sfide, come la necessità di migliorare l'aderenza alla terapia e l'accesso universale alle cure. Attualmente il 76% della popolazione HIV globale ha accesso alla terapia antiretrovirale, ma l'obiettivo che l’OMS si prefigge entro il 2030 è del “95-95-95”, per cui il 95% delle persone che vivono con HIV deve essere consapevole del proprio status, il 95% delle persone con una diagnosi deve ricevere la terapia, e il 95% di chi riceve la terapia deve avere dei livelli di virus nel sangue stabilmente soppressi. Alcuni Paesi - Botswana, Eswatini, Rwanda, Tanzania e Zimbabwe - hanno già raggiunto questo obiettivo.
La guarigione completa da HIV, dimostrata da casi come il "paziente di Berlino", offre una prospettiva di speranza, sebbene attualmente limitata a procedure complesse e non applicabili su vasta scala.


Credits:
*Foto di Anna Shvets / Pexel

**Rielaborazione di Lorenzo Restivo: 

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