Una premessa
The New Deal order was founded on the conviction that capitalism left to its own devices spelled economic disaster. It had to be managed by a strong central state able to govern the economic system in the public interest. The neoliberal order, by contrast, was grounded in the belief that market forces had to be liberated from government regulatory controls that were stymieing growth, innovation, and freedom.
Establishing a political order demands far more than winning an election or two. It requires deep-pocketed donors (and political action committees) to invest in promising candidates over the long term; the establishment of think tanks and policy networks to turn political ideas into actionable programs; a rising political party able to consistently win over multiple electoral constituencies; a capacity to shape political opinion both at the highest levels (the Supreme Court) and across popular print and broadcast media; and a moral perspective able to inspire voters with visions of the good life.
Da: The Rise and Fall of the Neoliberal Order, Gary Gerstle
Abbiamo avuto negli ultimi due anni un movimento statalista anomalo: l’espansione del deficit doppia rispetto al crisi precedente, quella del 2008-2009, finanziato non dai privati ma dalla banca centrale (1), e l’intervento direzionale sempre dello Stato.
Nella sua versione semplice l'idea dell'uso anti ciclico del bilancio dello stato, la spesa pubblica è espansa in deficit – uscite maggiori delle entrate - con la flessione dell'economia, mentre si contrae - entrate maggiori delle entrate - e va in avanzo con la ripresa. Con la ripresa, il bilancio dello stato va in surplus ed è annullato il debito creato in precedenza. Così il debito pubblico va sotto controllo.
Si ha anche la versione complessa, che è poi quella realistica. L'idea che si possa usare la spesa pubblica per governare il ciclo, con la spesa pubblica pro tempore, quella che si espande e poi si contrae, è messa in difficoltà dalla tentazione, che sorge in campo politico, di usare la spesa pubblica per raccogliere i favori degli elettori, organizzati in clientele. Finisce così che si ha una gran crescita del debito pubblico. Questa crescita non è quindi il frutto del caso, perché è tanto maggior quanto maggiore è la polarizzazione politica e l’incertezza elettorale (2). Se il sistema politico a fatica a definire un vincitore, ecco che tutti i candidati cercheranno di avere quanti più voti possibili senza tener conto dei vincoli di lungo periodo. Si ha come risultato finale l'incoerenza temporale delle politiche, con i governi in essere che sono fiscalmente irresponsabili, perché contano che quelli futuri non lo saranno. I quali, giunti potere, seguiranno lo stesso schema.
Si fosse trattato di un intervento, quello del 2020-2021, che non prendeva posizione sulla direzione delle cose, avremo avuto una politica anti ciclica classica. La politica anti ciclica classica dal Secondo dopoguerra si manifesta entro le caratteristiche dello Stato Sociale, che sono sanità, pensioni, e istruzione per tutti. Meglio, la politica anti ciclica classica vi è stata lo stesso con la crisi pandemica per far fronte al deterioramento nell'immediato dell'economia con la crescita dei sussidi di disoccupazione.
La seconda novità è stata la decisione di finanziare il nuovo percorso dell'economia: ecologico – informatico – egualitario. Hanno giocato favore di questa decisione il prepararsi nel corso del tempo prima della vittoria dei Democratici negli Usa e poi della “Coalizione Semaforo” in Germania. Ma la gestazione non si avuta solo nel campo politico, perché anche le istituzioni internazionali da tempo auspicavano una nuova combinazione di politiche economiche (3).
In Europa abbiamo avuto sia la prima fase di espansione dei bilanci senza indicare la direzione, quella per far fronte nell'immediato alla crisi, sia in un secondo momento indicando una direzione, con la messa in cantiere dei fondi che finanzieranno il nuovo assetto dell'economia. Negli Stati Uniti abbiamo avuto un andamento simile, prima con l'intervento anti recessivo e poi con la decisione di finanziare in nuovo assetto dell'economia (4).
Assistiamo così al ritorno della spesa pubblica, sia nella versione anti ciclica sia nella versione della spinta verso una nuova conformazione dell'economia.
L'intervento crescente dello stato in economia è un fenomeno che si manifesta da un paio di secoli, ma che ha accelerato nel secolo scorso, dopo la Seconda guerra, soprattutto con l'arrivo del suffragio universale (5). Governi e burocrazia tendono a difendere i propri interessi. Come il macellaio di Adam Smith che è mosso dal proprio tornaconto – un maggior fatturato - nell'offrire ai clienti la migliore combinazione di qualità prezzo, così politici hanno i propri incentivi – non quindi il <bene comune> (6) - per espandere lo stato. Più precisamente, poiché i costi sono distribuiti tra tutti i contribuenti mentre i benefici tendono a essere concentrati, il politico ottiene la gratitudine non della cittadinanza che è dispersa al momento del voto, ma dei gruppi di interesse che lo votano (7). La produttività differisce a seconda dei settori, ma i salari devono aumentare anche nei settori meno produttivi, mentre aumentano nei settori più produttivi; ciò che avviene per impedire ai lavoratori di passare da un settore all'altro (8).
Gran parte della spesa pubblica è in aree in cui la crescita della produttività del lavoro è lenta, in particolare nell'offerta di istruzione e assistenza sanitaria. I salari di questi settori aumentano a un tasso simile a quello delle altre parti dell'economia, e così aumenta la spesa pubblica.
Abbiamo due punti di vista sull'attivismo – come abbiamo visto, non più solamente anti ciclico ma direzionale - dell'intervento dello stato.
Quello a favore (9). Vi sono delle ragioni per cui i governi stanno scegliendo un approccio direzionale: La prima ragione: gli ultimi 40 anni hanno visto una crescita lenta della produttività, bassi investimenti, e molti cittadini esclusi dalla prosperità. La seconda ragione: l'economia oggi richiede degli enormi cambiamenti che solo lo stato è in grado di realizzare. Il coordinamento per una soluzione a basse o a zero emissioni di carbonio, e gli ingenti investimenti in nuove infrastrutture. La transizione verso un'energia verde è essenzialmente un problema di spesa in conto capitale. Qualsiasi tentativo di arrestare l'aumento della temperatura globale richiede la demolizione delle attività legate dell'economia del carbonio – come le centrali a carbone, i distributori di benzina - e la costruzione di una nuova infrastruttura basata sull'energia eolica e solare, e suoi veicoli elettrici. Per creare queste risorse è necessario impiegare molto capitale (10). Non è però molto chiaro come si presenta il percorso (11). La terza ragione: l'economia ruota sempre più intorno ai lavori qualificati in rete e quindi chiede investimenti ed una regolamentazione intelligente di questa infrastruttura.
Quello contro (12). Il sostegno statale a industrie, tecnologie, e imprese specifiche è guidata dal desiderio di promuovere posti di lavoro, garantire la sicurezza nazionale, e la transizione energetica. Questo è il sostegno <buono>. Quello <cattivo> è l'opposto. Con lo stato coinvolto nella gestione dell'economia le imprese probabilmente passeranno dal dare priorità ai consumatori al dare priorità allo scambio con il mondo politico. Le aziende protette potranno così diventare meno innovative.
Sul piano delle ricerche, da qualche tempo prima dell'arrivo del Covid-19, alcuni economisti erano giunti alla conclusione, a seguito della grande recessione del 2008-2009, che la politica monetaria da sola non avrebbe rimesso in carreggiata l'economia.
Era questo un cambio di paradigma rispetto alle convinzioni che si erano formate nei decenni precedenti, a seguito della stagflazione degli anni Settanta, e che erano prevalse sul piano operativo a partire dagli anni Ottanta – a seguito dell'elezione di Margareth Thatcher prima e di Ronald Reagan poi. L'idea e la pratica del paradigma divenuto dominante, che possiamo etichettare come neo liberale, era che i mercati – reali e finanziari - se lasciati liberi, sarebbero giunti all'equilibrio di piena occupazione (1). Lo stato non doveva interferire, ma agire come garante dei contratti privati, e, quando necessario, con la politica monetaria.
Dalla metà del decennio scorso è prima emerso nella ricerca e poi, con il nuovo decennio, si è imposto, a seguire la crisi pandemica, un paradigma che possiamo etichettare come keynesiano (2). Un paradigma che era stato in auge dal 1945 al 1975, per poi essere sostituto da quello neo liberale. Il paradigma che possiamo etichettare come liberale – quello non neo, ma del laissez faire – è stato in auge dal 1870 al 1914. Fra le due grandi guerre, invece, non abbiamo avuto un paradigma.
Il paradigma keynesiano, emerso negli ultimi anni, ha come riferimento il lavoro di Larry Summers (3) e di Olivier Blanchard (4). L‘argomentazione. L'economia dei Paesi sviluppati, se osservata al di là degli andamenti ciclici, cresce poco. Ciò avviene per la crescita modesta della produttività con la popolazione che invecchia. E' la tesi della <stagnazione secolare>. Per spingere la crescita di un'economia con queste caratteristiche non basta più la politica monetaria, perché i tassi e i rendimenti, intorno allo zero, la rendono impotente. E' la tesi della <trappola della liquidità>. Se i rendimenti sono bassi o nulli, il loro movimento successivo sarà a rialzo, e quindi si avrà una flessione dei prezzi delle obbligazioni. Come conseguenza, queste ultime non sono attraenti e quindi non vengono comprate dal settore privato e quindi le nuove emissione non sono sottoscritte e quindi non finanziano gli investimenti e la spesa pubblica. La conclusione per una economia che cresce poco e che non torna a crescere usando la sola politica monetaria è usare quella fiscale. L'espansione del debito pubblico che ne segue non porta ad un rialzo significativo dei rendimenti delle obbligazioni, e quindi a un forte rialzo del costo del debito, perché i mercati, che scontano la tesi della <stagnazione secolare>, si aspettano dei tassi e dei rendimenti delle obbligazioni schiacciati anche per l'avvenire.
La stagnazione secolare sostiene che una combinazione di alti tassi di risparmio e minori investimenti deprime i tassi di interesse. Il meccanismo si articola in quattro passaggi: a - la distribuzione del reddito favorisce i più abbienti quindi stimola la propensione al risparmio che è maggiore per i redditi elevati (5); b - l'aspettativa che l’economia rallenterà per la minore crescita della forza lavoro, la variabile demografica, e per il lento aumento della produttività; c - con questa minor crescita che riduce la domanda di investimenti e aumenta gli incentivi al risparmio; d - l'impatto, infine, dell'economia “immateriale” (6), che registra la riduzione del prezzo dei beni capitali e della quantità di capitale fisico necessario; i minori investimenti necessari nel mondo <immateriale> riducono la domanda di risparmio, e si ha un ulteriore eccesso di risparmio che spinge all'ingiù i tassi di interesse.
Si ha una crescita modesta con la politica monetaria che non basta. Ed ecco che si può riusare senza grandi rischi maggiori quella fiscale. L'espansione significativa di quest'ultima genera deficit e debito. Secondo i criteri di Maastricht il rapporto debito/PIL avrebbe dovuto essere del sessanta per cento. I tassi e i rendimenti erano allora intorno al tre per cento. Segue che, se il debito è oggi pari al doppio e i tassi e i rendimenti sono la metà, si ha un costo simile del debito in rapporto al PIL. Inutile aggiungere che il debito migliore è quello acceso di fronte agli investimenti materiali (infrastrutture) ed immateriali (educazione) e non alla spesa corrente volta a ottenere il consenso delle clientele. Una debito acceso a fronte degli investimenti dovrebbe forzare la crescita nel lungo termine, e rendere meno difficile il controllo del debito.
Abbiamo oggigiorno un nuovo consenso. Torna la politica fiscale attiva finanziata non con il rialzo delle imposte e/o con il taglio della spesa, ma con l'emissione di obbligazioni comprate in misura significativa dalla banca centrale. Il tutto in un contesto di tassi e rendimenti bassi per effetto della modesta domanda di risparmio per finanziare gli investimenti diventati sempre meno <fisici>. Questo era quanto si dibatteva prima che il rimbalzo del 2021 generasse una forte spinta dei prezzi per effetto della domanda tornata all’improvviso, mentre l'offerta era diventata rigida (7), (8). Se le cose sono messe in questo modo, ossia una combinazione contingente di domanda e offerta, allora i prezzi dovrebbe frenare motu proprio l'ascesa in un tempo relativamente breve – grafico 1. Da notare che il mercato delle obbligazioni la pensa allo stesso modo. Infatti, i rendimenti a lungo termine sono rimasti in sostanza invariati, così scontando un ritorno ad un tasso di inflazione modesto.
Si ha chi pensa, invece, che bisognerebbe, a ragione della possibile persistenza della crescita dei prezzi e della forte ripresa, intervenire subito senza aspettare che la crescita dei prezzi si normalizzi (9).
Come? Riducendo i titoli in portafoglio, ossia passando dal quantitative easing (QE) al quantitative tightening (QT), per poi alzare i tassi. Il contrario di quanto avvenuto nel passato recente, quando la banca centrale aspettava che la ripresa si solidificasse; a quel punto finiva di comprare ma non vendeva massicciamente le obbligazioni e iniziava ad aumentare i tassi di interesse; infine, quando la ripresa si stava consolidando e l'inflazione si avvicinava all'obiettivo, la banca centrale tornava, ma solo se necessario, all'inasprimento quantitativo. L'ipotesi di una politica monetaria che inizia oggi con la vendita dei titoli in portafoglio (QT) per poi passare al rialzo dei tassi si presta a critiche (10). In breve: a - non è assodato che l'acquisto da parte della banca centrale di titoli obbligazionari come la loro vendita abbia un qualche peso di rilievo nel determinare il prezzo delle obbligazioni (il livello dei rendimenti); b – come conseguenza una vendita di titoli (QT) non alzerebbe i abbastanza i rendimenti, mentre potrebbe far credere ai mercati che un rialzo significativo dei tassi non ci sarà perché si è proceduto a vendere i titoli; c - se i mercati si convincono i tassi non saranno rialzati allora continueranno a formare i prezzi come se la politica monetaria fosse ancora lasca.
Torniamo all'importante dibattito prima di questa fiammata inflazionistica. Esiste una scuola scettica, che pensa che quanto fin qui esposto a favore della politica fiscale priva di costi apprezzabili possa non rivelarsi una politica saggia (11). Essa si concentra sullo stimolo fiscale finanziato con le obbligazioni sottoscritte dal pubblico e dalla banca centrale. Nel caso della sottoscrizione da parte dei privati abbiamo un'uscita di moneta dal settore privato alle obbligazioni sovrane, e quindi non abbiamo una creazione di moneta, Nel caso della sottoscrizione da parte della banca centrale abbiamo una creazione di moneta volta comprare le obbligazioni sovrane dalle banche di credito ordinario. Nel secondo caso si crea un debito, nella forma di un deposito di moneta elettronica, delle banche centrali verso le banche di credito ordinario. Se un giorno i tassi tornassero a salire fino ad un livello importante, allora le banche centrali dovrebbero pagare su questi depositi degli interessi consistenti. E come se il governo avesse emesso delle obbligazioni a tasso variabile che oggi non pagano alcun interesse, ma domani dovrebbero farlo.
Rileva ricordare che i tassi e i rendimenti bassi o nulli, se hanno un effetto positivo sul costo del debito pubblico, e sui mutui ipotecari, hanno, allo stesso tempo, degli effetti distorsivi e dei vantaggi. Essi, infatti, consentono la sopravvivenza delle imprese <zombie> (12), quelle inefficienti che, se pagassero degli interessi <normali>, fallirebbero, e contribuiscono ad alzare il prezzo e gli affitti degli immobili, che è una causa maggiore della diseguaglianza (13). Non solo il modo di operare delle banche centrali, ma anche quello del settore privato produce delle distorsioni. Stephen Cecchetti ed Enisse Kharroubi sostengono che la crescita della produttività e quella del settore finanziario sono correlate negativamente (14). E ciò accade perché il sistema del credito favorisce in modo sproporzionato le attività economiche che possono essere facilmente impegnate contro i prestiti, ma la cui produttività cresce lentamente, come l'edilizia che si espande grazie alle bolle creditizie e con una crescita della produttività scarsa. Se una parte della finanza preferisce gli investimenti garantiti, esiste un’altra parte che cerca gli investimenti ad alto rischio. L’attività di venture capital è, infatti, all’origine dei finanziamenti che hanno dato modo all’industria informatica di emergere (15).
Si hanno, infine, gli effetti distorsivi sulle valutazioni di borsa delle imprese quotate (16). Gli ETF (Exchange-traded Fund) sono degli strumenti che investono con costi compressi sugli indici come tali, senza quindi operare alcuna scelta fra i titoli. I flussi di investimenti verso gli ETF sono esplosi ormai da anni. Se alcuni titoli salgono molto come accaduto con quelli tecnologici, con gli altri titoli che sono fermi, ecco che sale il loro peso negli indici. Aumenta così la domanda di titoli tecnologici, saliti nel frattempo di importanza, e aumenta, senza che si sia prestata troppa attenzione al rapporto fra i loro prezzo corrente e le prospettive. Accade l'opposto con i titoli che sono andati peggio. Essi, pesando meno negli indici, ricevono meno denaro. Gli ETF, in conclusione, <<fanno vincere ancora di più i vincitori>>.