La sfida degli Huthi nel Mar Rosso

La crisi del Mar Rosso dura da un anno e gli attacchi dallo Yemen al commercio globale non accennano a diminuire. I ribelli Huthi scoprono la US Navy non pienamente in grado di difendere una rotta fondamentale e danneggiano soprattutto i porti mediterranei. Saldi a Sana’a, si apprestano a espandere ulteriormente il proprio controllo sullo Yemen distrutto. Più che occuparsi dei palestinesi vogliono farsi valere come potenza regionale riconosciuta. L’alleanza con l’Iran è scalfibile, ma solo giocando una difficile partita politica. L’Italia ha risorse insospettabili.

La crisi del Mar Rosso

Il 19 ottobre 2023, ancora una settimana prima che Israele iniziasse l’invasione della Striscia di Gaza, dallo Yemen sono stati lanciati i primi missili e droni sullo Stato ebraico. In parte sono stati abbattuti da un cacciatorpediniere della US Navy nella prima azione militare statunitense in difesa di Israele dall’inizio della guerra. Esattamente un mese più tardi, il 19 novembre, l’obiettivo si è spostato sul mare con il dirottamento del mercantile Galaxy Leader, il cui abbordaggio ha aperto di fatto la crisi del Mar Rosso. Gli Huthi hanno dichiarato che avrebbero da allora iniziato a sostenere la causa palestinese colpendo navi battenti bandiera israeliana o di proprietà israeliana. Nella terza fase hanno preso di mira qualsiasi nave diretta nei porti israeliani, con un intensificarsi degli attacchi a partire dal 9 dicembre. Proclameranno anche l’inizio di una quarta e una quinta (attuale) fase, sostenendo di voler porre crescente pressione su Israele per fermare la guerra di Gaza. Intanto hanno attaccato oltre 130 navi, affondandone due e danneggiandone molte altre, come nel caso della petroliera Sounion, incendiata rischiando il disastro ambientale. Molte di esse in realtà non hanno legami con Israele. Pur risparmiando navi di proprietà russa e cinese, hanno colpito anche mercantili caricati in Russia o diretti in Cina e addirittura diretti in Iran.

Gli Huthi sono riusciti in questo modo a realizzare quanto sembrava improbabile fino a pochi anni fa: minacciare e chiudere uno stretto fondamentale come Bab el-Mandeb ("porta delle lacrime" in arabo) e quindi il canale di Suez, riportando il commercio marittimo al 1869. Il traffico commerciale per Bab el-Mandeb è diminuito di circa il 70% rispetto ai livelli pre crisi, con transiti di portacontainer calati dell’88%, di petroliere del 55%, di portarinfuse del 62% e di navi passeggeri del 100%. Il canale di Suez, fondamentale fonte di valuta estera per lo Stato egiziano, ha visto diminuire i ricavi dai 9,4 miliardi di dollari dell’anno fiscale luglio 2022 - giugno 2023 ai 7,2 miliardi del 2023-24. In un discorso tenuto a settembre il presidente egiziano Al-Sisi ha dichiarato che il Canale aveva già perso oltre 6 miliardi di dollari. Un effetto indiretto è stato anche il ritorno della pirateria nell’Oceano Indiano dopo anni di inattività, permesso dalla distrazione di alcune unità delle insufficienti flotte militari europee. Gli attacchi nel Mar Rosso hanno importanti ripercussioni sul commercio e la logistica globali, con conseguenze distribuite sotto forma di inflazione.

Specialmente danneggiati sono i paesi mediterranei, Italia su tutti. Per il Mar Rosso passava il 40% del nostro traffico commerciale, e da un anno a questa parte i costi di trasporto medi dei container sulla rotta Shanghai-Genova sono più che triplicati. Se i tempi di transito medi dall’Asia al Nord Europa si sono allungati di massimo un 25%, quelli per il Mediterraneo centrale sono cresciuti del 40%. La crisi ha inoltre interrotto la tendenza che vedeva il Mediterraneo diventare più centrale nel commercio globale, con i porti italiani che negli ultimi anni avevano sfruttato il vantaggio della loro posizione geografica per intercettare una parte del traffico marittimo proveniente da Suez e destinato ai mercati europei. Il traffico nei 6 maggiori porti italiani è già calato di circa il 7%, perdendo quasi il 70% delle navi che prima li sceglievano per scaricare le merci dirette in Nord Europa. (dati IMF PortWatch)

Gli obiettivi degli Huthi

Gli Huthi (o più propriamente Anṣār Allāh, "Partigiani di Dio") governano oggi de facto dall’antica capitale Sana’a buona parte di quello che fu lo Yemen del Nord, compreso un lungo tratto della costa yemenita che si affaccia sul Mar Rosso. Si tratta della parte più importante della storica Arabia Felix, per il resto prevalentemente desertica e poco abitata. Vi vivono oltre tre quarti dei 40 milioni di yemeniti, giovanissimi e in rapida crescita nonostante la difficile situazione umanitaria.

Nel conquistare la Capitale i miliziani si sono fatti Stato, mantenendo le strutture e le burocrazie preesistenti e spesso affiancandovi negli uffici supervisori fedeli a controllarne le attività, in una struttura di potere informale che si mischia a quella formale. Pur non essendo un’organizzazione tribale, gli Huthi hanno saputo muoversi con grande abilità nel complesso mosaico delle tribù yemenite per conquistarne il supporto, spesso appoggiandosi alla rete di alleanze del deposto presidente Saleh. Hanno esteso capillarmente il proprio controllo avvalendosi di un’amministrazione autoritaria e hanno implementato sistemi amministrativi e giudiziari che ormai riflettono un’ideologia spesso in contrasto con le pratiche tribali tradizionali, che gli Huthi stanno iniziando a superare rivoluzionando la società yemenita. Hanno promosso nelle aree sotto il proprio controllo una rigida interpretazione della Sharia, che ha influenzato molti aspetti della vita quotidiana, dall'abbigliamento alle norme sociali. Controllano cibo, acqua e sanità, che utilizzano sia come strumento di potere che di coercizione. Raccolgono le tasse, stampano moneta e sono in grado di condurre azioni di guerra all’estero, con armi iraniane ma anche nuovi missili, droni e mine navali che possono produrre autonomamente. Nonostante rimangano ancora segni di resistenza, gli Huthi stanno ormai vincendo la decennale guerra civile yemenita, durante la quale ai crimini di guerra della coalizione a guida saudita hanno contrapposto continue violazioni dei diritti umani, come il reclutamento di bambini soldato, l’uso di mine antiuomo, il blocco di aiuti umanitari, arresti arbitrari e rapimenti di intellettuali, giornalisti, attivisti.

L’organizzazione politica e militare sciita zaidita degli Huthi è nata negli anni ’90 intorno alla città di Sa’da, cuore nell’estremo nord dello Yemen primigenio e tradizionale. Hanno preso il nome di Huthi dal fondatore Hussein al-Huthi (leader religioso ritenuto discendente del Profeta), dopo che questi fu ucciso nel 2004 dall’Esercito yemenita durante la prima delle sei rivolte armate contro il regime di Saleh. Accusavano il governo di aver negletto la loro comunità, di essere corrotto e manovrato da sauditi e americani (da questo nasce nel 2003 il loro slogan violentemente antiamericano e antisraeliano). Sono cresciuti sul modello di Hezbollah, di cui condividono la storia di gruppo di resistenza con una guerra come momento fondativo, un’analoga propaganda populista contro la corruzione e una proposta politica elaborata costantemente contro qualcuno. Ne condividono anche la figura religiosa del leader, decisore ultimo ma senza ruoli formali nel governo e nelle istituzioni (l’attuale capo Abdul-Malik al-Huthi potrebbe essere visto come la versione yemenita del libanese Nasrallah, per alcuni aspetti anche della guida suprema iraniana). Ma, nonostante tali similarità, il movimento degli Huthi non è una creazione dell’Iran e il rapporto che ha sviluppato con la Repubblica Islamica è molto diverso da quello di totale soggezione che caratterizza Hezbollah o le milizie filoiraniane di Siria e Iraq. Per quanto gli Huthi siano un gruppo sciita, essi non fanno riferimento alla corrente duodecimana (che raggruppa almeno il 90% degli sciiti, tra cui la grande maggioranza degli sciiti iraniani, iracheni e libanesi) ma a quella zaidita, diffusa nel solo Yemen e considerata più moderata. In Yemen le divisioni tra sciiti e sunniti sono poi meno marcate che altrove, l’identità religiosa non è quella più importante in una società tribale a maggioranza sunnita riunita per molti secoli sotto il governo di Imam sciiti zaiditi.

In verde lo Yemen controllato dagli Huthi. Fonte: Wikimedia Commons

Nel 2011 e 2012 gli Huthi cavalcano le primavere arabe che portano alle dimissioni del presidente Saleh e, avendo l’ambizione di governare il Paese, riprendono le azioni di guerriglia che li portano il 21 settembre 2014 a conquistare Sana’a. Sorprendentemente alleatisi con il vecchio presidente Saleh riescono in quei mesi ad espandere rapidamente il proprio controllo sul territorio e ad assorbire buona parte delle forze armate regolari yemenite con i relativi arsenali. Combattono allora con straordinario successo la campagna militare lanciata nel marzo 2015 dall’Arabia Saudita alla testa di una vasta coalizione araba sostenuta anche indirettamente con armi e intelligence da paesi occidentali, in particolare USA e Regno Unito. Fallito il progetto saudita di riportare in poche settimane il presidente Mansur Hadi a Sana’a, gli Huthi si rafforzano guadagnando un più largo favore popolare grazie alla missione nazionalista della quale vengono investiti, costruendosi la fama di difensori dell’identità yemenita tradizionale, autentica e indipendente. La Coalizione si ritrova così impantanata in un conflitto vietnamita che non può più vincere. Colpendo in profondità prima il territorio saudito ed emiratino poi recentemente addirittura quello israeliano, Ansar Allah ha dimostrato anche una disponibilità di vettori a lungo raggio che ha cambiato gli scenari nella regione. Già da diversi anni l’Arabia Saudita è così alla ricerca di una tregua, con trattative diplomatiche intensificatesi in particolare dopo l’accordo saudita con l’Iran mediato dalla Cina nel marzo 2023. Ma l’Iran, per quanto rimanga il principale alleato degli Huthi, non è in grado di imporre alcuna tregua contro la volontà di Sana’a. La loro collaborazione esiste almeno dal 2009 ed è molto aumentata a partire dal 2015, quando Teheran ha colto la ghiotta occasione di contrastare l’Arabia Saudita e allargare la propria area di influenza intervenendo solo con aiuti militari e una spesa molto modesta. Il movimento degli Huthi ha però una sua autonomia militare e un profondo radicamento storico e geografico nel paese; quella che combatte non può in alcun modo essere vista come una guerra per procura.

Per l’Iran Ansar Allah costituisce dunque un alleato prezioso ma molto difficile e imprevedibile, che non ha mai voluto coordinare le proprie azioni con la Repubblica Islamica, e che anche sul Mar Rosso opera per ragioni profondamente interne. Gli attacchi al traffico marittimo rappresentano per l’Iran al contempo un motivo di interesse e un grave pericolo: pur allettata dalla possibilità di premere su Israele e danneggiare l'Occidente, Teheran non tiene in mano la situazione, che può sfuggire in ogni momento. Nella misura in cui gli attacchi fanno anche gli interessi iraniani, gli Huthi intanto ne approfittano per ottenere sostegno e aiuti di cui non necessiterebbero più in chiave antisaudita. Più importante, Ansar Allah ha bisogno di gestire il malcontento interno, dato che con il calare delle ostilità c’è la necessità di dare risposte alla popolazione civile che chiede il ripristino dei servizi, ricostruzione e sviluppo. Sana’a è ancora politicamente isolata e non è in grado di assicurare nulla di tutto ciò: si appoggia allora alla causa palestinese per mantenere la guerra permanente. Gli Huthi hanno soprattutto deciso di sfruttare l’opportunità che il conflitto di Gaza gli offre per guadagnare credibilità e attenzione all’estero, riaprendo al contempo la questione yemenita, il cui congelamento li ha danneggiati. Ma anche nell’eventualità di negoziati potranno usare questa capacità di destabilizzare la regione per alzare la posta. Consapevoli che un eventuale fallimento delle trattative potrebbe fornirgli l’opportunità di riunificare sotto il proprio controllo l’intero Yemen, obiettivo di cui non fanno mistero.

La risposta occidentale

La risposta occidentale si è articolata in due diverse operazioni: Prosperity Guardian a guida statunitense (iniziata il 18 dicembre 2023) e l’europea Aspides(partita il 19 febbraio 2024). Stati Uniti e Regno Unito hanno successivamente integrato da soli l’operazione difensiva Prosperity Guardian con Poseidon Archer, nell’ambito della quale dal 12 gennaio 2024 conducono attacchi aerei e missilistici su obiettivi militari in territorio yemenita. L’obiettivo è quello di imporre agli Huthi un costo per gli attacchi alla libertà di navigazione nel Mar Rosso. Contestualmente il Dipartimento di Stato americano qualificava nuovamente il gruppo come terroristico, dopo averlo depennato nel 2021 nell’ambito del raffreddamento delle relazioni con l’Arabia Saudita portato dalla nuova amministrazione. Per gli Stati Uniti la scelta di colpire in Yemen era diventata ineludibile dato il proprio ruolo di protettori del commercio globale, nonostante fosse chiaro che una campagna aerea non sarebbe stata sufficiente a modificare il comportamento degli Huthi o impedirgli di continuare gli attacchi. Il fierissimo popolo yemenita vive infatti tra guerre pressoché continue dal 1962 e gli Huthi possono contare su un’infrastruttura militare, governativa e istituzionale articolata e ridondante. Da nove anni aeronautiche moderne come quelle saudite ed emiratine già li bombardano con migliaia di sortite avvalendosi anche di intelligence occidentale, senza riuscire a intaccare il controllo che dal 2015 Ansar Allah ha esteso su una parte fondamentale del paese. Questa però è la prima volta che quanto succede dentro lo Yemen interferisce con gli interessi occidentali ed è la prima volta che ce ne interessiamo davvero, esattamente quanto desiderava Sana’a. Nonostante alcuni troppo facili entusiasmi che hanno accompagnato l’inizio dell’operazione anglo-americana Poseidon Archer, era pertanto del tutto escluso che raid aerei molto più limitati e talvolta su obiettivi già precedentemente battuti dalla Coalizione potessero ristabilire la deterrenza e fermare gli attacchi sul Mar Rosso. D’altra parte però se gli Huthi avevano l’obiettivo di riportare all’ordine del giorno la questione yemenita e farsi riconoscere come interlocutore necessario nella stabilizzazione dell’area, non possono nemmeno sperare di raggiungerlo per una via che costringerebbe gli Stati Uniti a riconoscersi implicitamente impotenti nella difesa della libera navigazione.

Nave Duilio (D 554) e nave Bergamini (F 590), delle due classi che la Marina Militare ha avvicendato in Aspides. Fonte: Wikimedia Commons

L’operazione europea Aspides (“scudi” in greco) ha invece fatto emergere tutti i limiti dell’Unione e dei singoli paesi. Tra bizantinismi e conciliazione di singoli interessi nazionali l’Unione Europea ha impiegato ben tre mesi per accordarsi su una missione difensiva alla quale partecipano solo alcuni paesi su base volontaria. Ciascuno Stato avrebbe in seguito dovuto approvarla, con il ridicolo caso italiano di un Parlamento che la vota solo dopo due settimane, quando il Duilio aveva già abbattuto il primo drone. L’ostruzionismo di AVS in questo caso ha solo reso più evidente l’inadeguatezza di una legge e di un processo decisionale che va adeguato ai tempi repentinamente mutati. È dunque ovvio che anche solo per motivi politici l’operazione europea non poteva essere più che strettamente difensiva. Questo di non rispondere neppure sulle basi da cui partono missili e droni potrebbe essere anche l’approccio più intelligente, ma è importante ricordare che una missione europea non avrebbe proprio avuto la capacità tecnica di farlo né di minacciarlo credibilmente. La Marina Militare ad esempio è la componente più sviluppata delle forze armate italiane e la seconda marina europea, malgrado ciò soffre da anni di una drammatica carenza di personale, ha una flotta appena sufficiente a dedicare una sola unità alla volta al Mar Rosso e non dispone di veri missili da crociera per precisa scelta politica. Problemi simili si ritrovano in tutte le marine dell’Unione, con la sola Marine nationale che avrebbe maggiori capacità di attacco al suolo, ma che deve anch’essa fare i conti con scorte troppo limitate e la mancanza di una seconda portaerei. Anche la semplice difesa pone importanti problemi tecnici, con un numero di lanciatori VLS ovunque troppo limitato e relativi missili di poco più numerosi. Incredibile ed emblematica la recente notizia di una moderna fregata tedesca (Baden-Württemberg, ben 7200 t, in servizio dal 2019) costretta a evitare il Mar Rosso e doppiare il capo di Buona Speranza di ritorno dall’Indo-Pacifico perché non sufficientemente difesa rispetto alla minaccia degli Huthi. In contesti come questo difendersi costa oggi molto più che attaccare, e i processi di diffusione orizzontale di determinate tecnologie offrono lezioni militari amare per chiunque speri in un mondo più stabile e pacifico.

La guerra tornata lo scorso anno nel Vicino Oriente ha complicato anche la vicenda yemenita, allontanando i negoziati che si stavano delineando. Sarà molto difficile uscire dalla crisi del Mar Rosso senza concedere qualcosa alla strategia degli Huthi. Oltre a perdere la faccia si rischia di creare un pericoloso precedente, se non si è già creato tra gli attori che osservano con attenzione questa vicenda tra le altre che stanno cambiando il mondo. Nel momento in cui si concluderà la guerra a Gaza sarà necessario aprire gradualmente e non senza condizioni uno spiraglio con cui iniziare a dialogare con Sana’a per scongiurare un polo autonomo di perdurante instabilità in grado di tracimare oltre i confini yemeniti. Esiste anche qualche possibilità di infilarsi tra gli Huthi e l’Iran spezzando un ramo fragile dell’Asse della Resistenza, tornando a esercitare un’influenza su un paese strategicamente importante e afflitto da una crisi umanitaria che dura da anni. E magari evitare un possibile avvicinamento alla Russia, che fino al 1990 aveva nello Yemen del Sud una repubblica marxista satellite. I paesi occidentali però non possono muoversi solo in nome del realismo politico e, per quanto le modalità con cui Israele ha condotto la sua guerra potrebbero facilitare, Stati Uniti e Regno Unito soprattutto rischiano di perdere troppa credibilità in una simile operazione politica. L’Italia, sempre nel rispetto della propria lealtà europea e atlantica, sarà tra tutti il paese più indicato ad aprire un primo canale diplomatico. Abbiamo buoni rapporti con tutti i paesi in gioco e una lunga storia di politica estera filoaraba, affacciarci a contribuire a una pacificazione dello Yemen sarebbe una mossa coraggiosa nel nostro pieno interesse e in quello dei nostri alleati. Soprattutto l’Italia gode di un affetto speciale presso gli yemeniti, nato quando nel 1926 riconoscemmo per primi l’indipendenza del paese anziché tentare di farne un protettorato come usava all’epoca. Cercavamo di sottrarlo all’influenza coloniale inglese e di coltivare rapporti di buon vicinato nell’ambito dei quali fu creata la fortunata missione di medici italiani che avviarono il paese verso una sanità moderna.

Amedeo Guillet nel 1935. Fonte: Wikimedia Commons

Amedeo Guillet dal suo rocambolesco sbarco in Yemen è diventato rapidamente un eroe che gli yemeniti amano e ricordano meglio degli stessi italiani. Dopo la guerra fu lo stesso Comandante Diavolo da diplomatico a capo dell’Ambasciata in Yemen che riportò le relazioni bilaterali a un livello ottimo, grazie alla cooperazione medica che sarebbe continuata a lungo e a numerose altre iniziative come quelle di diplomazia culturale a tutela dell’immenso patrimonio yemenita. Lo stesso Imam manteneva italiani nel suo entourage e scelse tra tante sollecite offerte di volare a Roma quando fu costretto a lasciare per la prima volta il proprio paese per delicate cure mediche, occasione in cui incontrò Montanelli che ne trasse un famoso ritratto. Quando nel 1970 Pasolini girò in Yemen scene del Decameron fu conquistato dalla struggente bellezza di Sana’a e decise di raccontarla nel cortometraggio Le mura di Sana, che ha fatto conoscere al mondo la fragile e meravigliosa capitale spingendo l’UNESCO a dichiararla patrimonio dell’umanità. Gli yemeniti ci considerano ancora un paese fratello nella nostra totale inconsapevolezza. La Farnesina, che ha recentemente pubblicato le memorie di Amedeo Guillet in due splendidi volumi dal titolo La mia tela yemenita (disponibili anche liberamente in pdf), dovrà essere in grado di sfruttare questo patrimonio negletto nella difficile partita politica che si aprirà per la sicurezza del Mar Rosso e la stabilizzazione dello Yemen.

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