L'articolo prende le mosse dal libro di Eric Jones “The European Miracle”, analizzando i fattori che hanno permesso all'Europa di emergere come leader mondiale in termini di industrializzazione e influenza geopolitica. Si discute il ruolo della geografia, della tecnologia e della frammentazione politica nell’ascesa europea, contrapposta al declino degli imperi ottomano, cinese, indiano e giapponese. L'articolo aggiorna la prospettiva di Jones, esaminando il ritorno della logica imperiale nel XXI secolo, con la sfida alla globalizzazione posta da potenze come Cina e Russia. Questo contesto geopolitico richiama l'importanza storica e attuale della frammentazione politica europea come fattore di forza e, paradossalmente, di vulnerabilità.
Eric Jones, nel suo magistrale libro “The European Miracle”, si domanda quali elementi abbiano permesso all’Europa di arrivare prima di altre regioni, segnatamente l’Asia, a industrializzarsi e, di fatto, a “conquistare” il mondo.
Nell’arco di circa 300 dense pagine e forte di una bibliografia sterminata, conclude che uno dei fattori, forse quello determinante, di questo primato, è da ricercare in definitiva nella caduta dell’Impero Romano d’Occidente. A partire da quell’evento infatti, nell’arco di secoli e con molte alterne vicende, si sono venuti a creare in Europa gli stati-nazione, fatto che oggi diamo per scontato ma che in realtà a livello storico, in the very long run, è un elemento unico e distintivo della cultura e della politica europee.
Le culture asiatiche che vengono prese in esame (quella ottomana, indiana, cinese e giapponese) non hanno attraversato infatti le stesse fasi di quella europea e, soprattutto, hanno mantenuto la loro costituzione di imperi nel periodo in cui l’Europa, grazie ad una congerie di elementi in parte fortuiti (es. la posizione geografica) e in parte indotti (gli avanzamenti tecnologici in primo luogo), raggiungeva le Americhe e si accingeva a surclassare e poi a dominare le altre economie.
In estrema sintesi, quindi, il successo dell’Europa risiede nel fatto di aver “rinunciato” ad essere impero e nell’aver sintetizzato una modalità di scambio competitivo-collaborativo tra una serie di entità socio-politico-economiche, nessuna delle quali aveva la capacità di soggiogare tutte le altre e farsi impero, nonostante i generosi tentativi fatti da vari sovrani nel corso dei secoli (ultimo Carlo V nel Cinquecento).
Il libro di Jones è del 1981, con aggiornamenti fino all’ultima edizione del 2003. Il quadro geo-politico nel quale è stato scritto è quello dell’ordine post-bellico uscito dalla Seconda guerra mondiale. Risente quindi un po’ del clima da “fine della storia” nel quale la cultura europea e americana erano immerse, con la contrapposizione tra due imperi informali, quello americano e quello sovietico, che con buona approssimazione si erano spartiti il mondo a Jalta. Ognuno “sovrano” sul proprio pezzo di mondo, con una serie di paesi cosiddetti non-allineati a fare da cuscinetto.
Cos’è accaduto dopo? Lo stiamo capendo soltanto oggi che il mondo è ripiombato nella logica dello scontro tra superpotenze e nel momento in cui l’Europa si è ritrovata la guerra nei propri confini.
Il crollo dell’Unione Sovietica rappresentava in termini storici (il very long run di Jones) il contenimento dell’impero russo, che aveva ereditato da quello zarista il territorio e la missione di civilizzazione spirituale del mondo che troviamo in Dostoevskij, Tolstoj e altri eminenti autori, seppur nella consapevolezza che il periodo zarista fu - dal punto di vista autarchico ed imperialista - una conseguenza più o meno diretta del Giogo Mongolo e della distruzione dello status sociale preesistente e della reinterpretazione endogena di cosa dovesse essere la Russia, impersonata nella figura di Ivan III le cui conquiste e sistema di governo rappresentano di fatto il prodromo della svolta imperialista ed autarchica del Paese. Quella umiliazione imposta dall’Occidente non è stata mai dimenticata dal popolo russo, che ha dato la colpa di questa resa all’uomo che in Europa e in America ancor oggi è celebrato come l’uomo della pace e della fine del comunismo, Michail Gorbačëv.
La Cina, o per meglio dire l’impero cinese, ha attraversato un periodo di declino (in buona parte endogeno come sostiene Jones) ben prima che arrivassero gli europei. Soltanto verso la metà dell’Ottocento, tuttavia, questo declino ha permesso alla potenza europea in ascesa in Asia, quella britannica, di ridurre di fatto lo stato Qing a vassallo, con strumenti che hanno precipitato la Cina in quasi due secoli di torpore politico ed intellettuale. C’è voluta la Lunga Marcia, una sanguinosa guerra civile e poi la costituzione della Repubblica Popolare per risvegliare questa cultura millenaria, che si è da poco (in termini storici) rimessa in condizioni di competere con l’Occidente. Per questo motivo ancor oggi Mao Zedong, nonostante gli orrori del grande balzo in avanti e della rivoluzione culturale, è celebrato come il fondatore della Cina moderna e Presidente eterno.
Non stupisce come, a seguito di questo risveglio, la Cina abbia ripreso a compiere operazioni politiche (e non solo) volte a reintegrare Taiwan, Hong Kong, le isole Diaoyu, il Mar Cinese Meridionale ecc., quali parti costitutive di quello che considera il proprio impero.
Insomma, basta dare un’occhiata ad una cartina del mondo per rendersi conto che, in chiave geopolitica, l’epoca degli imperi è tornata, anzi più propriamente, forse non era mai davvero tramontata. La “fine della storia”, un’epoca in cui gli Stati Uniti avrebbero dominato, o quantomeno influenzato, il mondo senza rivali era una notizia grandemente esagerata.
La sempre minor preminenza USA sulla scena internazionale, unitamente all'ascesa cinese e non solo, ha spinto molti analisti a parlare di quest'epoca come l'era del "multipolarismo" geopolitico, proprio ad evidenziare come il binomio USA - Russia del periodo della Guerra Fredda non sia ad oggi sufficiente per descrivere con efficacia la complessità dello scenario geopolitico mondiale.
L’impero americano, va peraltro detto, è nato per reazione e in contrapposizione all’impero britannico. Non bisogna dimenticare che i coloni americani erano inglesi, alcuni anche per nascita e avevano in mente di sostituire l’impero britannico con un impero americano, tanto che ne “copiarono” molte caratteristiche (cfr. Francis Jennings, La creazione dell'America). Gli Stati Uniti d’America si possono considerare dunque l’ultima manifestazione di un impero europeo. Non a caso sono intervenuti per ben due volte in trent’anni nel secolo scorso per salvare dal suicidio il vecchio continente, imponendovi la “pax americana” (haec tibi erunt artes/pacisque imponere morem).
Anche se la radice è europea, tuttavia, è sempre più chiaro che gli interessi geostrategici americani non sono allineati con quelli europei, Basterebbe considerare il predominio di Internet che gli USA possiedono rispetto all’Europa, che in quasi trent’anni non è riuscita a produrre un solo “gigante” della rete, mentre gli altri imperi o hanno chiuso le loro frontiere ai colossi a stelle e strisce oppure hanno costruito i loro campioni in contrapposizione a quelli americani. Questo divario si riverbera in molti altri campi. Basti pensare alla difesa, che gli europei hanno delegato in grandissima misura all’alleato d’oltre Atlantico, lasciandogli implicitamente anche la leadership tecnologica di interi settori, si pensi ai droni, alle reti satellitari o al “cyber warfare”.
Riavvolgendo la matassa della Storia e svolgendola a velocità aumentata, appare dunque chiaro che il gesto di Odoacre fu davvero gravido di conseguenze, che perdurano tuttora. Rimandando a Bisanzio all’imperatore Zenone le insegne imperiali, il generale sciro si assunse la responsabilità di dire al mondo che l’Europa non aveva più bisogno di un impero e che da allora le diverse coalizioni di tribù, prevalentemente -ma non certo esclusivamente- germaniche avrebbero governato ciascuna i propri territori in base agli interessi e alle necessità dei singoli gruppi. Da questo magma sarebbero nati il popolo tedesco, quello francese, quello spagnolo, da ultimo anche quello italiano. Avrebbero mantenuto accesa la fiaccola della civiltà romana, perpetuata e sublimata da quella cristiana, attraverso un continuo scambio culturale ed economico che li avrebbe portati, una volta verificatesi diverse condizioni, a conquistare un mondo ben più vasto dell’Europa e in alcuni casi ben più ricco. Questo sviluppo avrebbe avvalorato l’idea che gli imperi non sono necessari anzi sono un freno all’industrializzazione e allo sviluppo, mentre le nazioni europee, nel frattempo divenute democrazie liberali, avrebbero garantito benessere e stabilità.
Tale rappresentazione del mondo, già messa in crisi dalle due guerre mondiali, è entrata definitivamente in crisi nel ventunesimo secolo, allorché la globalizzazione ha permesso a giganti dormienti (la Cina) e a stati molto ricchi di fonti energetiche (la Russia) di riaffermare il proprio status di potenze imperiali, sfidando apertamente il modello occidentale.
In questo nuovo contesto, il modello dello stato-nazione, che ha costituito come abbiamo visto un irripetibile vantaggio europeo nella “conquista” del mondo, si rivela improvvisamente un handicap. L’Europa si trova circondata da imperi ostili e con l’unico impero “amico” in crisi di identità (e di vocazione), nonché separato da un oceano, che per secoli era stato poco più di un lago, che torna ad allargarsi.
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